Il 29 ottobre il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno legge sulla manovra di bilancio per il 2022 che prevede “la prosecuzione di una politica di bilancio espansiva al fine di sostenere l’economia e la società nelle fasi di uscita dalla pandemia da Covid-19 e di aumentare il tasso di crescita nel medio termine, rafforzando gli effetti degli investimenti e delle riforme previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza”, come recita il comunicato stampa di palazzo Chigi.
È significativo, a mio parere, che il primo punto qualificante l’espansività della manovra sia la riduzione della pressione fiscale sui redditi da lavoro, del cuneo fiscale (cioè la differenza tra il costo del lavoro e il netto in busta paga) e dell’Irap, con un intervento complessivo di 8 miliardi di euro, di cui 6 nuovi e 2 già stanziati in precedenza.
Sul solco tracciato dal Documento programmatico di bilancio, la manovra si muove tra le esigenze di finanziare investimenti aggiuntivi rispetto ai fondi derivanti dal Recovery Plan, di salvaguardare la sostenibilità a medio termine delle finanze pubbliche e di incentivare la “crescita buona”, potremmo dire, cioè misure sostenibili anche sotto il profilo sociale e ambientale, quali, ad esempio, il miglioramento del sistema sanitario e di protezione sociale: si tratta di tre esigenze che rispondono ad altrettante raccomandazioni dell’Unione europea.
Il momento è favorevole anche per due ulteriori elementi. Da un lato, la ripresa già in atto dell’economia: secondo le stime governative, il Pil italiano dovrebbe attestarsi intorno al 6% nel 2021, per crescere ancora del 4,7% nel 2022, 2,8% nel 2023 e 1,9% nel 2024 (percentuali, sia pure paragonate al 2020, a cui non eravamo abituati da tempo!); dall’altro lato, sono ancora sospesi i vincoli europei sull’indebitamento pubblico, che probabilmente saranno oggetto di revisione: diversamente, infatti, pressoché tutti i Paesi europei si troverebbero a infrangere le regole di stabilità, con conseguente avvio di procedura sanzionatoria, vista l’enorme montagna di debiti contratti per far fronte alla pandemia. Così, la politica di bilancio 2022, oltre all’obiettivo di supportare la crescita, sostenendo l’economia in uscita dall’emergenza sanitaria, mira a ridurre il carico fiscale per famiglie e imprese.
L’eccessivo peso fiscale è stato analizzato e rimarcato anche dal Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva condotta dalla Commissione Finanze della Camera dei Deputati in materia di riforma sul reddito delle persone fisiche, approvato il 30 giugno scorso, con l’obiettivo di perseguire la crescita dell’economia e la semplificazione del sistema tributario. L’indagine mostra che in Italia l’aliquota implicita di tassazione sul lavoro – inclusiva di Irpef e contributi sociali – è pari al 42,7%, a fronte di una media Ue del 38,2% (38,6% se ci si limita all’Area Euro). Il focus sulle aliquote marginali effettive, relative cioè alla parte del reddito lordo che deve essere versato all’erario, oppure che viene compensato dalla riduzione o dall’assenza di benefici fiscali, mostra che oltre il 20% dei lavoratori dipendenti occupati da meno di 12 mesi ha aliquote marginali effettive superiori a quella massima relativa all’ultimo scaglione Irpef (43%) e appartiene al ceto medio-basso; quasi il 15% dei contribuenti, con un reddito medio di 31.000 euro e un’aliquota media del 19,8%, sconta un’aliquota marginale effettiva compresa nella fascia 45-50%.
Ad analoghi rilievi giunge l’analisi condotta da Itinerari Previdenziali – che, per inciso, non condivide alcune proposte di intervento indicate dalla Commissione Parlamentare – osservando che il 21,18% dei contribuenti italiani con redditi da 29.000 euro in su corrisponde il 71,64% dell’intera Irpef e, scomponendo ulteriormente i dati resi disponibili dal Dipartimento delle Finanze del Mef riferiti al periodo di imposta 2019, il 13,22% dei contribuenti con redditi da 35.000 euro in su versa il 58,86% dell’Irpef.
Dai dati su esposti, benché in modo sommario, si comprende chiaramente la necessità di intervenire riducendo l’aliquota media effettiva, con particolare riferimento alla fascia di reddito compresa tra 28.000 e 55.000 euro, che già a livello di scaglione progressivo sconta un’aliquota marginale del 38%, di ben 11 punti percentuali superiore a quello dello scaglione precedente (27%, 15.000-28.000 euro).
Sono facilmente intuibili gli impatti negativi di una simile pressione fiscale sul mercato del lavoro e, di conseguenza, sulla crescita: l’offerta lavorativa viene scarsamente incentivata e, quando non si finisce ad alimentare il sommerso, si è costretti a optare per lavori part-time, oppure scarsamente qualificati e, quindi, meno remunerati: per queste ragioni, in sostanza, nel 2019, il salario medio italiano si attestava su 30.000 euro, a fronte di 39.000 in Francia e di 42.000 in Germania (secondo il rapporto “Salari e Occupazione”, curato dalla Fondazione Di Vittorio – Cgil).
In conclusione, direi che i tempi sono più che maturi: l’attenzione posta al ceto medio consente di stimolare la mobilità sociale e la ricerca di migliori condizioni per tutti; o almeno di evitare che chi gode ancora di un certo benessere oggi finisca per incrementare il numero degli indigenti domani, con il solito teatrino pubblico di straccio delle vesti da parte di politici, sindacati, prelati e quant’altro; spettacolo che, francamente, non mi riesce più di sopportare!
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