Dunque è l’evasione fiscale l’alfa e l’omega della crisi italiana. Lo ha detto chiaro e tondo il premier Giuseppe Conte alla vigilia del varo della manovra 2020. Se l’Italia è di nuovo in recessione, se la disoccupazione giovanile è ancora oltre le medie Ue, se il debito pubblico è oltre la linea rossa di Maastricht eccetera, la colpa è – principalmente, esclusivamente – di chi non paga le tasse. Perde tempo chi invita a ragionare su cause ed effetti macro e micro. E chi se ne importa se il Fmi (di Christine Lagarde) ha messo per iscritto pochi giorni fa che il vero “tesoro dell’evasione” è sepolto in Lussemburgo, dov’è stato ministro delle Finanze Jean-Claude Juncker. Il male assoluto da estirpare è l’evasione italiana, è lì che bisogna intervenire “maledettamente e subito”. Anche se non è chiaro come. Anche prima di aggredire la spesa pubblica, come pure suggerisce Carlo Cottarelli, premier incaricato per un giorno nel maggio 2018.



Contestare in linea di principio Conte-2 non è facile: chi può dar torto a un premer “del presidente” che pretende che tutti i contribuenti paghino le tasse a norma di Costituzione? Una prima domanda (politica) sorge però immediata: perché Conte-1 – appena un anno fa e con M5s già allora primo azionista della maggioranza di governo – non ha denunciato come prioritaria la stessa emergenza? Eppure il ministro dell’Economia non era un esponente della Lega: era un tecnico di fiducia del Quirinale come l’economista Giovanni Tria. Neppure lui, tuttavia, ha mai indicato nell’evasione il “tumore” del declino italiano. Anche lui, invece, ha spezzato altri pani semplici: i fari Ue sono sul rapporto debito/Pil; il debito è alto (riprendere a privatizzare sarebbe un primo passo per abbassarlo, ndr); il Pil è stagnante (c’è – anche – un problema di fiducia degli imprenditori e di rilancio della produttività nell’industria e nella Pa, ndr).



Tornando comunque alla Grande Evasione – che nessuno dubita ci sia e sia un problema – una seconda questione (politica) segue a ruota. Dopo il ribaltone di agosto nella maggioranza è subentrato il Pd, ora scomposto in Italia Viva. Comunque lo vogliamo identificare, è lo stesso centro-sinistra che ha governato il Paese per cinque anni, dal 2013 al 2018. I ministri dell’Economia sono stati lo scomparso Fabrizio Saccomanni (con Enrico Letta) e poi Pier Carlo Padoan (con Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, oggi assurto a controllore dei bilanci pubblici dei 27 Paesi della Ue). Com’è possibile che una legislatura piena con il Pd (renziano) a Palazzo Chigi abbia lasciato in eredità un’emergenza-evasione da 109 miliardi? È la stessa area politica delle “tasse bellissime” celebrate dallo scomparso Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell’Economia nel governo Prodi-2. E il suo vice era Vincenzo Visco, uno “scienziato delle finanze” di vecchia scuola Pci: per il quale le tasse erano un strumento di lotta politica, “di classe”. Perché dopo 13 anni (sette a formale guida centro-sinistra) un “premier di nessuno” rilancia un grido di dolore fiscale?



Dopo Padoa Schioppa, sicuramente, tornò al Mef Giulio Tremonti. Ma già nel 2011, il premier tecnico Mario Monti resse direttamente le Finanze all’insegna dell’austerity Ue: e la sua stagione – oltreché per gli esodati Inps del ministro Elsa Fornero – è ricordata anche per gli innumerevoli incidenti agli sportelli dell’Agenzia delle Entrate. Il manganello fiscale venne fatto mulinare – principalmente contro le partite Iva del Nord Italia – dall’ex poliziotto-capo del Secit, Attilio Befera. Può stupire che Monti abbia ostentatamente votato la sua fiducia al Conte-2 “governo del Sud”, sempre più votato alla vendetta fiscale verso il Nord (leghista)? Sorprende di meno, certo, che Renzi abbia subito preso le distanze da un governo che appare ogni giorno di più riedizione del Monti: nato per stroncare un esecutivo democraticamente eletto ma sgradito “all’Europa e ai mercati”; e per preparare una nuova stagione di governo per il centrosinistra “democratico” (pazienza se sempre perdente alle voto democratico).