Una delle riforme fondanti previste dal Pnrr è quella del sistema tributario. Attenzione, non si tratta di una riforma “imposta” dall’Unione europea all’Italia. Da anni, vari Governi (basati sulle più disparate maggioranze) pongono come prioritaria la riforma tributaria – specialmente dell’imposta-principe, quella sul reddito delle persone fisiche, Irpef – in cima ai loro programmi e compaiono le proposte più ardite, dalla flat tax (molto cara alla Lega) a varie forme di imposizioni su redditi personali non da lavoro che assomigliano a patrimoniali (molto care, invece, alle forze politiche di sinistra). Se ne è fatto poco o niente.
Ora c’è un “contratto” con l’Ue. La riforma tributaria è come quella della giustizia: da essa non dipendono solo i finanziamenti europei per realizzarla, ma l’intero flusso di risorse attese dal Next Generation Eu. È una riforma in cui siamo il ritardo: il “contratto” con l’Ue prevedeva l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del pertinente disegno di legge delega prima delle vacanze estive. Nell’ultima conferenza stampa, il presidente del Consiglio Mario Draghi ne ha ribadito l’importanza e sottolineato che il disegno di legge delega verrà approvato prima della fine dell’anno. Ha anche aggiunto che riguarderà principalmente la fiscalità sui redditi medio bassi e sul lavoro.
Non traspare molto da quanto è in cantiere al Dipartimento delle Politiche fiscali del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tuttavia, questa settimana il Cnel comincia a esaminare le analisi del Gruppo di lavoro per l’esame delle tematiche connesse alla riforma fiscale anche al fine della redazione di una iniziativa legislativa ai sensi dell’art. 99, comma 3, della Costituzione, gruppo coordinato da Vieri Ceriani, a lungo consigliere per le politiche tributarie di diversi ministri dell’Economia e delle Finanze. È un compendioso lavoro tecnico da cui si possono trarre alcune indicazioni che probabilmente confluiranno in un documento di osservazioni e proposte a Governo e Parlamento.
Affrontare la riforma dell’Irpef vuole dire entrare in un vero labirinto che riguarda l’intero sistema tributario. Guardando solamente alle aliquote (il tema a cui i media rivolgono maggiore attenzione), nel corso degli anni la progressività data dal ventaglio delle aliquote nominali è stata ridotta: nel 1974 si avevano 32 aliquote, comprese tra il 10% e il 72 %; nel 2000 le aliquote erano 5, dal 18,5% al 45,5%; oggi le aliquote sono cinque, comprese tra il 23% e il 43% (a cui si aggiungono le addizionali e comunali). La progressività non dipende solo dalle aliquote di legge; negli ultimi anni le detrazioni decrescenti e da ultimo il bonus 80-100 euro l’hanno notevolmente aumentata.
Le proposte di flat tax prevedono una riduzione comunque forte della progressività: ovviamente maggiore nel caso di aliquota unica “bassa”, minore se l’aliquota fosse fissata a un livello più “alto”. La progressività, seppure molto attenuata, non scomparirebbe del tutto, data la dichiarata presenza di detrazioni/deduzioni sui redditi più bassi. La perdita di gettito sarebbe rilevantissima. Altre proposte mirano a contenere la perdita di gettito in ambiti più ridotti e sostenibili, e a mantenere un grado di progressività elevato, ma comunque ridotto su una fascia medio-bassa di redditi.
Nello specifico, ha ricevuto particolare attenzione nel dibattito recente la presenza dell’aliquota marginale del 38% per i redditi compresi tra 28 e 55 mila euro l’anno, con un salto di aliquota marginale di 11 punti rispetto allo scaglione precedente, e in corrispondenza di una fascia di reddito in cui le detrazioni per lavoro dipendente assumono profilo decrescente fino ad azzerarsi. La riduzione dell’aliquota marginale del 38% (o la creazione di un ulteriore scaglione, ad aliquota più bassa, tra i 28 e i 55 mila euro) avrebbe un effetto di sgravio anche sui redditi superiori ai 55 mila euro, con perdita di gettito più rilevante.
Appare complesso, operando sulla struttura degli scaglioni e delle aliquote, ottenere una modifica “chirurgica” delle aliquote effettive solo nella fascia di reddito desiderata, lasciando inalterata la restante parte della curva delle aliquote. Anche per questo motivo, è stata avanzata la proposta di modificare la struttura del prelievo, applicando una funzione matematica in luogo dei tradizionali scaglioni.
Una strada possibile per uscire dal labirinto dell’Irpef, quindi, è l’ipotesi di revisione della struttura con l’abolizione di scaglioni, aliquote e detrazioni per tipologia di reddito e l’istituzione di una progressività “continua”. In sostanza, a ogni livello di reddito imponibile corrisponderebbero le proprie aliquote medie e marginali. Questo sistema (già presente nella nostra imposta complementare precedente alla riforma degli anni Settanta e oggi applicato, assieme agli scaglioni, in Germania) consentirebbe una crescita costante e graduale delle aliquote medie e marginali effettive, eliminando i “salti” d’imposta che oggi caratterizzano l’Irpef. Con la fissazione di pochi parametri (minimo esente, aliquota massima, elasticità del prelievo) sarebbe possibile determinare il grado di progressività del sistema. Sono anche possibili soluzioni alternative che prevedono di ottenere la progressività continua con formule matematiche diverse, mantenendo le detrazioni per tipologia di reddito, con un livello costante anziché decrescente. Quanto sarebbe comprensibile questo meccanismo ai contribuenti?
Inoltre, i redditi finanziari, sono soggetti a imposte sostitutive e quindi sottratti alla progressività dell’Irpef. Questa scelta di fondo ha caratterizzato il nostro sistema fiscale fin dalla riforma degli anni Settanta, ed è comune a molti altri Paesi. La critica fondamentale a questa scelta è proprio l’esclusione dalla progressività, quindi la mancata rispondenza a criteri di equità verticale. Va però notato che, rispetto al secolo scorso e al primo decennio dell’attuale, è oggi presente nel nostro sistema un’imposta patrimoniale di tipo reale su tutte le attività finanziarie, con aliquota del 2 per mille, istituita con il decreto Salva-Italia del 2011. Dato che la ricchezza è più concentrata del reddito, un’imposta patrimoniale proporzionale comporta un carico progressivamente crescente sul reddito.
Nel riformare le imposte sul reddito (da lavoro o da finanza) occorre tener presente che la concentrazione sui redditi da lavoro dipendente e pensione, contrariamente a quanto accadeva negli anni Settanta, avviene in un momento storico in cui la quota dei redditi da lavoro sul Pil appare in sostanziale declino; si riduce quindi, rispetto al passato, la “rappresentatività” dell’Irpef come principale imposta sulle diverse forme di reddito. Inoltre, il divario tra gettito teorico ed effettivo per diverse categorie di reddito appare molto più ampio nel caso dei redditi di lavoro autonomo e d’impresa che non in quello dei redditi da lavoro dipendente. Infine, il peso dell’Irpef sui redditi da lavoro dipendente e pensione è conseguenza di un campo di applicazione piuttosto limitato sugli altri redditi (redditi d’impresa, di lavoro autonomo, interessi, dividendi, plusvalenze, affitti di fabbricati, redditi dominicali e agrari dei terreni) che sono soggetti in larga parte a tassazioni separate sostitutive o a regimi forfettari.
Difficile oggi prevedere se il disegno di legge delega atteso per dicembre delineerà una riforma organica e complessiva o solamente un ritocco delle aliquote per i redditi tra 28 e 55mila euro l’anno. Nella seconda ipotesi, saremmo lontani da quanto si attende l’Ue. E da quanto ci aspettiamo noi. Nella prima occorre indicare con chiarezza “il filo di Arianna” che porterà alla normativa secondaria, i decreti delegati.
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