Il tentativo di assimilare il condono per le cartelle fiscali fino all’importo di 5mila euro nel novero degli aiuti erogati dallo Stato per sostenere le persone in condizioni di difficoltà economica nel corso della pandemia Covid è patetico. È francamente difficile sostenere che i cittadini che non hanno ottemperato al dovere di pagare le tasse sugli immobili, sui rifiuti, le multe stradali negli anni che intercorrono tra il 2000 e il 2010 non l’abbiano fatto perché indigenti. Offende il buon senso e denota il cinismo di quei politici che prendono a pretesto ogni occasione per cavalcare i condoni per fini elettorali.
Molto più seria è la vera motivazione che ha convinto l’Esecutivo ad adottare un provvedimento di questo genere, con un compromesso che limita il condono per i redditi 2019 inferiori ai 30 mila euro, eliminando 16 milioni di cartelle, per sgravare il lavoro della Agenzia delle Entrate dagli obblighi di gestire le azioni di recupero di somme che vengono considerate inesigibili e concentrare le energie verso la lotta agli evasori fiscali (cosa peraltro non vera in quanto tra i 660 milioni di mancato introito, 445 sono relativi alla rinuncia della riscossione delle rate già convenute con i contribuenti che hanno aderito ai provvedimenti di rottamazione).
Gli stessi propositi che hanno portato tre governi negli ultimi 5 anni a promuovere 3 rottamazioni delle cartelle, con la possibilità di rateizzare gli importi con la rinuncia degli interessi e delle sanzioni, e un’analogo condono varato dal Governo Conte in versione giallo-verde, per gli importi fino a 1.000 euro.
L’aspetto preoccupante non si limita all’ennesima presa in giro dei cittadini onesti. È fondata la sensazione che il tema sia tutt’altro che esaurito, se non addirittura destinato a essere riproposto nei prossimi anni, in relazione alle conseguenze della crisi economica. In una recente audizione al Parlamento, il Direttore generale della Agenzia delle Entrate (AdE), Ernesto Ruffini, ha fatto un interessante aggiornamento sulla condizione dei crediti fiscali maturati dalle Amministrazioni pubbliche e della loro concreta esigibilità.
Secondo le cifre fornite dall’AdE, della esorbitante cifra di 987 miliardi di crediti: circa 405 miliardi (41%) dovrebbero essere considerati come sostanzialmente inesigibili per fallimenti e cessazioni delle imprese, decessi o irreperibilità dei contribuenti; altri 440 miliardi (45%) attribuiti a soggetti già sottoposti ad accertamento, nullatenenti o ritenuti economicamente poco solvibili per diverse ragioni; 50 miliardi (5%) oggetto di ricorsi in autotutela da parte dei contribuenti, sospesi in attesa di pronunciamenti della Magistratura, e oggetto delle rateizzazioni promosse con i provvedimenti di rottamazione delle cartelle.
Una montagna di crediti in gran parte destinati a svanire, che hanno registrato un grande balzo nel corso della crisi economica intercorsa tra il 2008 e il 2014.
Sul fronte opposto, quello delle persone che hanno ottemperato ai doveri fiscali per la componente delle imposte dirette, gli introiti dell’erario risultano principalmente legati a una sparuta quota di contribuenti che si fanno carico della quasi totalità della spesa sociale per la sanità e per l’assistenza. Una recente analisi sui dati forniti dal ministero dell’Economia e dall’AdE per l’anno 2018, operata dal centro studi Itinerari Previdenziali diretto dal Prof. Alberto Brambilla, ha messo in evidenza come il 59% delle imposte venga pagato dal 13% dei contribuenti con redditi lordi superiori ai 35 mila euro annui (e tra queste il 36% pagate dal 4,5% dei contribuenti con redditi superiori ai 55 mila euro lordi), mentre sul fronte opposto l’80% dei 41,3 milioni dei contribuenti totali teorici, che denunciano redditi inferiori ai 20 mila euro annui contribuisce per meno del 10% delle imposte dirette, e la metà di loro non versa nemmeno un euro al fisco.
In buona sostanza, a poco più del 10% dei contribuenti, per la gran parte lavoratori dipendenti, pensionati, dirigenti pubblici e privati, si deve circa l’80% del finanziamento della spesa sociale per la sanità e per l’assistenza, mentre una parte rilevantissima di cittadini campa di rendita a spese della collettività.
Un’anomalia ampiamente spiegata dall’abnorme componente del lavoro e del reddito sommerso che ha accompagnato lo sviluppo economico dal secondo dopoguerra sino ai giorni nostri (attualmente attestata sul 12% del Pil con una sottrazione di 110 miliardi di versamenti fiscali all’erario, ma con punte storiche vicine al 20%) e che ha contribuito in modo significativo alla crescita diffusa del patrimonio in immobili e mezzi finanziari, superiore di 5 volte al reddito annuale prodotto, che ci colloca al vertice dei Paesi sviluppati.
A questa tendenza ha contribuito in modo paradossale l’inefficiente intermediazione dello Stato non solo sul versante delle entrate, ma anche su quello dell’accesso alle prestazioni pensionistiche, assistenziali, sanitarie, e agevolazioni di varia natura erogate sulla base di requisiti di reddito fasulli.
Una caratteristica per certi aspetti comprensibile durante la fase di costruzione dello Stato sociale a cavallo degli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo, quella che ha generato la deriva dei trattamenti pensionistici assistiti dalla spesa pubblica per carenza di contributi previdenziali dei beneficiari, ma che ha dato la stura alle politiche sociali che hanno incrementato il debito pubblico con l’erogazione di pensioni assistite, assegni sociali, bonus di ogni sorta sulla base delle dichiarazioni fiscali che hanno disincentivato la crescita ufficiale dei redditi dichiarati e penalizzato l’accesso ai servizi pubblici per i redditi medio alti introducendo a loro carico un’ulteriore quota di balzelli e contributi per le spese scolastiche, mense, trasporti, rifiuti, contributi di solidarietà, addizionali regionali e locali.
Il malcostume di spacciarsi come persone povere, o comunque bisognose di assistenza dello Stato, ha investito ampi strati della popolazione, sino a diventare il perno principale su cui ruota il rapporto tra gli elettori e le forze politiche, nessuna esclusa.
Giova evidenziare come il tema del contrasto alla povertà sia stato utilizzato nell’ultimo decennio per sollecitare provvedimenti di ogni sorta (aumento degli assegni sociali, bonus Renzi, 14ma mensilità sulle pensioni, Ape social, redditi di inserimento, di inclusione, di cittadinanza, di emergenza) con un incremento della spesa di 40 miliardi su base annua. Evidentemente con scarsi risultati, dato che nel medesimo periodo, secondo l’Istat, è raddoppiato il numero delle persone in condizioni di povertà assoluta.
Nel 2020 l’Inps ha distribuito risorse per il Reddito di cittadinanza e per quello di emergenza verso 4,7 milioni di beneficiari per un importo superiore ai 9 miliardi di euro. Una somma superiore agli 8 miliardi a suo tempo stimati come fabbisogno per ridurre drasticamente il numero dei poveri, ma secondo l’indagine preliminare pubblicata recentemente dall’lstat sui redditi delle famiglie nel 2020 sarebbero aumentati di un ulteriore milione (da 4,6 a 5,6 milioni).
C’è evidentemente qualcosa di profondamente distorto nella funzione redistributiva dello Stato, che genera iniquità e distorce l’utilizzo delle risorse penalizzando le persone più fragili.
Eppure coloro che denunciano questa palese degenerazione, e la necessità di introdurre riforme in grado di correggere le distorsioni, di agevolare fiscalmente coloro che producono reddito e occupazione, che si prendono cura dei figli e delle persone non autosufficienti, vengono additati come persone politicamente scorrette.
Sul tappeto, infatti, rimane il proposito di fare una riforma dell’Irpef che, sempre in nome della redistribuzione del reddito, vuole ridurre ulteriormente il numero dei contribuenti attivi, finanziando la riduzione del carico fiscale su quelli medio bassi con la riduzione delle detrazioni fiscali per quelli medio alti.
Non è lecito sapere quale possa essere la sostenibilità di un simile approccio di fronte: all’esplosione della spesa assistenziale; di un ulteriore incremento dei bonus e dei crediti di imposta; del proposito di introdurre, finalmente, un sostegno duraturo per i minori a carico delle famiglie con l’assegno unico; di sgravare dai contributi sociali tutte le imprese del Mezzogiorno e sulle nuove assunzioni su tutto il territorio nazionale per riassorbire la disoccupazione.
Finita la pandemia, si dovranno fare i conti con i costi economici e sociali, e ci si accorgerà che la priorità del nostro Paese non è quella di forzare la transizione digitale e ambientale dell’economia, cosa destinata a verificarsi per ragioni di competitività, ma di rigenerare una massa critica di imprese e di lavoratori in grado di invertire la deriva parassitaria che caratterizza una parte significativa della nostra comunità nazionale.
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