Nell’intervento alle Camere per ottenere la fiducia, il presidente del Consiglio Mario Draghi aveva collocato la riforma fiscale sul reddito delle persone fisiche (Irpef) nell’ambito di quella più generale delle imposte, e da promuovere a valle di un lavoro preparatorio predisposto da una commissione di esperti, richiamando come esempio l’esperimento attuato con successo in Danimarca. Ma questa tempistica per una riforma promessa più volte anche dai Governi Conte 1 e 2, non sembra essere stata gradita dalla Commissione europea che, nell’ambito delle interlocuzioni per la valutazione della proposta italiana per l’utilizzo dei fondi Next Generation Eu, ha sostanzialmente chiesto l’anticipazione dei tempi di approvazione.



Invito accolto dal Governo Draghi con la decisione di sottoporre alle Camere, a partire dal mese di luglio p.v. l’esame di una proposta di riforma elaborata sulla base degli esiti del lavoro istruttorio in corso presso una apposita commissione parlamentare.

Gli indirizzi per la riforma dell’Irpef sono ancora piuttosto generici: mantenere la progressività dell’imposta, diminuire la pressione fiscale sui ceti medio bassi, tenendo conto della parallela introduzione dell’assegno unico per i figli a carico fino ai 21 anni prevista nella legge delega “Family act” recentemente approvata dal Parlamento, e di finanziare, almeno in parte, gli oneri per il bilancio pubblico derivanti dalla diminuzione della pressione fiscale, con il taglio di una quota delle attuali detrazioni e deduzioni fiscali (tax expenditures).



Un impegno più limitato rispetto ai velleitari annunci della precedente compagine governativa giallorossa, che era riuscita a promettere nel contempo: una riforma delle aliquote dell’Irpef sulla base di due ipotesi alternative, la riduzione del cuneo fiscale sul costo del lavoro per le imprese, gli sgravi contributivi previdenziali per tutte le imprese e gli occupati del mezzogiorno fino al 2030, l’introduzione dell’assegno unico per il sostegno dei figli a carico delle famiglie.

Tuttavia il percorso rimane impervio, non solo per le incertezze economiche che pesano sul bilancio pubblico, a partire dalla verifica dell’effettiva esigibilità futura delle poste fiscali che sono state sospese o rinviate nel tempo per una buona parte delle imprese e dei lavoratori autonomi, e del costo effettivo delle garanzie offerte dallo Stato al sistema bancario per i crediti delle imprese che non risulteranno solvibili.



Mettiamo in fila gli obiettivi annunciati per verificare la loro credibilità. Le coperture attualmente previste per gli ambiti delle riforme dell’assegno unico e dell’Irpef sommano circa 22 miliardi, tre dei quali destinati, nelle intenzioni, al finanziamento della riduzione delle aliquote e i rimanenti per la riforma dell’assegno unico. Alle coperture concorrono i 14 miliardi provenienti dalla soppressione degli assegni familiari e delle detrazioni per i familiari a carico attualmente in vigore per i lavoratori dipendenti.

Con le attuali coperture, l’obiettivo preannunciato di erogare un assegno medio mensile per ogni figlio a carico, per un importo medio di 250 euro, anche per le famiglie dei lavoratori autonomi e per quelle fiscalmente incapienti, è praticamente inattuabile perché servirebbero almeno altri 6 miliardi. Una distribuzione delle risorse attualmente disponibili sulla nuova platea, secondo le stime di due centri di ricerca, comporterebbe la perdita parziale degli attuali benefici per almeno 2 milioni di lavoratori dipendenti, senza calcolare l’effetto di una maggiore imposizione fiscale per gli stessi per le mancate detrazioni sul reddito lordo. Allo stato attuale circola l’ipotesi di avviare la riforma solo con l’erogazione di un assegno mensile provvisorio per le famiglie fiscalmente incapienti e per quelle dei lavoratori autonomi (80 euro mensili?) per tutto il secondo semestre del 2020, lasciando inalterate le prestazioni in atto per i lavoratori dipendenti e rinviando alla nuova Legge di bilancio il reperimento dei nuovi fondi per completare l’attuazione dell’assegno unico. La legge delega “Family act” prevede anche l’introduzione delle detrazioni fiscali per l’acquisto dei servizi di educazione e di cura dei figli e delle persone non autosufficienti, che nell’impostazione della riforma delle aliquote Irpef dovrebbero invece essere soppresse, almeno in parte, per reperire le somme necessarie per finanziare la riduzione delle aliquote.

Ma quanto è realistica la previsione di ridurre le detrazioni e le deduzioni fiscali? Come evidenziato, quelle destinate alle detrazioni fiscali per i carichi familiari sono già ipotecate per la riforma dell’assegno unico. Le detrazioni e le deduzioni fiscali per le spese sanitarie, per i costi sostenuti per contributi previdenziali pubblici e per la previdenza complementare vengono escluse dal taglio dagli stessi proponenti. L’eliminazione dei 100 euro mensili del bonus Renzi fino ai 28 mila euro lordi, e le detrazioni successive introdotte dal Governo Conte 2 per estenderli con una graduale riduzione fino ai 40 mila euro, comporterebbe un aumento della pressione fiscale sui redditi medio bassi che dovrebbe essere compensata da un’analoga riduzione ulteriore delle aliquote. Per le detrazioni per le ristrutturazioni edilizie, oltre 20 miliardi per via dell’introduzione del superbonus con effetti di trascinamento per i prossimi 5-10 anni, le forze politiche chiedono all’unanimità di prolungarle temporalmente con un ulteriore aggravio di 10 miliardi di euro, e interventi analoghi vengono previsti per incentivare la installazione di energie rinnovabili. La cedolare secca sugli affitti, e altre detrazioni per gli acquisti di beni durevoli, sono interventi promossi per contrastare l’economia sommersa. Alla fine l’unico approdo possibile appare quello di introdurre dei limiti di reddito per poter usufruire delle detrazioni e deduzioni fiscali, analogamente a quanto si sta facendo con l’esenzione dei ticket sanitari e l’erogazione di vari bonus, ma con l’inevitabile effetto di aumentare la pressione fiscale sui maggiori contribuenti dell’erario.

Quest’ultimo è forse l’aspetto più trascurato nell’approccio alla riforma. Le ipotesi che circolano convergono sull’obiettivo di concentrare la riduzione delle aliquote di prelievo fiscale sui redditi che oscillano tra i 33 mila e i 55 mila euro lordi anno (circa 3,5 milioni sul totale di 41,4 milioni di contribuenti, e che contribuiscono al 21,5% degli introiti totali dell’Irpef), attualmente sottoposta a un prelievo del 38% con un balzo di 11 punti rispetto all’aliquota dello scaglione precedente. Il costo di questa operazione dovrebbe essere di poco superiore ai 10 miliardi di euro, da finanziare con le modalità prima ricordate. L’effetto finale di questa operazione è di fatto quello di aumentare la pressione fiscale per i redditi superiori ai 55 mila euro lordi (il 4,6% sul totale dei dichiaranti, per la maggior parte dipendenti e pensionati, che contribuiscono al 38% degli introiti fiscali), mentre sul fronte opposto, 24 milioni di contribuenti, pari al 57,5% del totale, nelle fasce medio basse, dichiara redditi negativi o al di sotto dei 20 mila euro annui.

Un’immagine palesemente distorta della realtà e influenzata dalla rilevante componente dell’evasione fiscale. Un effetto esaltato dalla miriade di prestazioni, e servizi, erogate dalle varie amministrazioni sulla base delle (auto)dichiarazioni Isee dei contribuenti: assegni sociali, redditi di cittadinanza e di emergenza, esenzioni dei ticket sanitari, bonus mense, trasporti, rette asili nido, spese scolastiche…, ovvero addizionali locali sull’Irpef, Imu, tasse scolastiche per i redditi medio alti, che, nell’insieme, disincentivano l’incremento delle basi imponibili dichiarate dai contribuenti. Il tutto in assenza di un’anagrafe fiscale in grado di verificare la correttezza delle dichiarazioni Isee, e di monitorare l’esito delle erogazioni, che la Guardia di Finanza, sulla base di indagini campione, ritiene “inadeguate” per il 70% dei casi esaminati.

Nelle condizioni attuali, la relazione tra la progressività delle imposte, la redistribuzione del reddito, e l’equità sociale, invocata dai sostenitori della riforma Irpef, è del tutto inesistente. La prospettiva di ridurre questo divario con un’energica lotta all’evasione fiscale, tramite il potenziamento dell’incrocio delle banche dati e delle iniziative volte a scoraggiare l’evasione, ribadita per l’ennesima volta anche dall’attuale Governo, è quanto mai auspicabile, ma i tempi per renderla efficace non saranno brevi. Come dimostrato del resto dal varo delle periodiche rottamazioni delle cartelle fiscali e dei condoni finalizzato a sgravare i crediti ritenuti in tutto o parzialmente inesigibili da parte della Agenzia delle Entrate. E che, con tutta probabilità, proseguiranno anche nei prossimi anni per le conseguenze della crisi economica in atto.

Nel contesto attuale, queste evidenze consigliano di evitare di mettere in campo iniziative irragionevoli e contraddittorie. Se l’attuazione del Family act è una priorità assoluta, come affermato più volte dal presidente del Consiglio, coerenza vuole che le risorse vengano utilizzate in questa direzione. Se l’obiettivo della politica economica è quello di far convergere le risorse pubbliche e private verso gli investimenti e le trasformazioni produttive, come più volte ribadito nella proposta di Pnrr, le scelte fiscali devono essere conseguenti e finalizzate alla crescita delle imprese e dell’occupazione come condizione per l’incremento dei redditi e della redistribuzione della ricchezza prodotta.

Sembrano cose ovvie, soprattutto per un Paese che detiene il record mondiale del declino demografico e che, anche per questa ragione, impiegherà più tempo per recuperare le perdite del Pil accumulate nel corso della crisi Covid. Il fatto che non lo siano dovrebbe preoccupare le persone di buon senso.

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