La Guardia di Finanza della provincia di La Spezia ha disposto un’indagine a tappeto, denominata “bada bene”, che ha portato alla luce le mancate dichiarazioni fiscali di 230 colf e badanti, con una sottrazione di circa 3 milioni di euro all’Erario. L’evasione non è imputabile ai datori di lavoro. Nella fattispecie, per le famiglie che hanno attivato rapporti di lavoro domestico, non è previsto l’obbligo di agire quale sostituto di imposta per le trattenute fiscali sui salari erogati, ma solo a quello di denunciare il rapporto di lavoro e di versare i contributi previdenziali di propria spettanza. Tale evasione non è quindi riconducibile alle prestazioni in nero. All’opposto, la Guardia di Finanza ha potuto quantificare gli importi evasi dalle colf e badanti ispezionate grazie alla dichiarazione contributiva operata dai datori di lavoro.
La fattispecie merita qualche riflessione. Il comparto del lavoro domestico, all’interno del più complesso settore dei servizi alla persona, è infatti caratterizzato da un’ampia percentuale di lavoro sommerso, in gran parte relazionata alle prestazioni effettuate da lavoratrici immigrate. Le stime rilasciate dall’Istat, e una particolare indagine effettuata dal Censis , rivelano che la stima del lavoro sommerso, su un potenziale di 1,8 milioni di lavoratrici/ lavoratori occupati, riguardi almeno il 55% del valore delle prestazioni erogate. All’interno delle quali circa il 30% gestite del tutto illegalmente, e un ulteriore 38% con forme parziali di lavoro sommerso. Un fenomeno in forte espansione considerando che il numero degli occupati è raddoppiato nell’ultimo decennio. E che è ulteriormente destinato a crescere per via della domanda di assistenza che proviene dai fabbisogni di cura collegati all’invecchiamento delle persone.
Alla luce di questi dati, quanto emerso a seguito dell’indagine della Guardia di Finanza di La Spezia è solo una piccola parte della potenziale evasione. Paradossalmente quella più facilmente contrastabile. Infatti, la possibilità di incrociare i dati sui versamenti contributivi in possesso dell’Inps con le dichiarazioni fiscali inviate alla Agenzia delle entrate, non solo è possibile su tutto il territorio nazionale, ma qualcuno dovrebbe spiegare perché non sia mai ancora attuata, dato che il fenomeno era noto. Cosa che in più occasioni, in altra veste e in altre sedi, mi ero permesso di sollecitare senza avere riscontri.
Anche se non c’è da illudersi riguardo potenziali effetti per l’Erario. Sulla base delle ricostruzioni operate dall’Inps sugli importi medi percepiti dalle colf e dalle badanti, questi salari risultano essere per la grande maggioranza dei percettori al di sotto dei 9.000 euro annuali, la soglia esente dalla tassazione. Ben diverso, e assai più complicato, è riuscire a controllare e far emergere il complesso del lavoro sommerso, senza riscontri disponibili se non le generiche stime campionarie effettuate dagli istituti di ricerca. E tenendo in debito conto che mandare gli ispettori del lavoro e la Guardia di Finanza nelle famiglie non è affatto semplice anche per le implicazioni sociali.
Infatti, il problema è storicamente tollerato, ivi compresa la presenza di una quota non marginale di immigrati irregolari che lo aggrava. Perché i pagamenti, in tutto o in parte, erogati in nero dalle famiglie rappresentano una risposta alla difficile sostenibilità dei costi da parte delle stesse. Soprattutto per la cura delle persone non autosufficienti. Il problema è talmente noto, che in tutti i Paesi sviluppati queste prestazioni sono ampiamente sostenute con contributi, soprattutto autorizzando le detrazioni fiscali per le spese sostenute dalle famiglie, da parte delle pubbliche amministrazioni. Con un duplice effetto: quello di far emergere una notevole mole di prestazioni e di rapporti di lavoro nel mercato del lavoro ufficiale, con relativi ritorni fiscali per l’Erario, e di rendere più efficienti le modalità di erogazione dei servizi.
Una recente pubblicazione dell’Eurostat mette in evidenza il forte scostamento negativo, circa 1,4 milioni di occupati, riscontrato in Italia rispetto alla media europea delle lavoratrici e dei lavoratori impiegati nei settori della sanità, dell’assistenza, dei servizi collettivi territoriali e a domicilio destinati alle persone. Un divario che offre una spiegazione anche per quello esistente sul tasso di occupazione totale rispetto agli altri paesi aderenti all’Ue. In questo ambito, la prevalenza dei rapporti di lavoro nella forma delle colf e badanti sul totale degli occupati coinvolti, in gran parte destinati a donne immigrate, è una caratteristica specificatamente italiana. Frutto evidente delle diverse politiche di sostegno alle famiglie, della natalità e della cura delle persone messe in campo nei diversi contesti nazionali.
Nella Legge di bilancio in gestazione al Parlamento la risposta italiana alle criticità evidenziate è rappresentata dall’introduzione dei vincoli per l’uso del contante, del tutto inefficace per contrastare queste forme di pagamento, e dall’erogazione di bonus provvisori per salari, natalità, nidi e scuole materne, a vantaggio dei redditi bassi. O sarebbe meglio dire, presunti tali, perché in queste fasce di reddito che si annidano le mancate dichiarazioni fiscali dovute al lavoro sommerso.
Dietro tutto questo c’è un evidente limite di approccio culturale: la convinzione che i problemi possano essere rimediati con un sovraccarico di politiche redistributive e di controlli sulle dichiarazioni dei redditi, come alternativa a quelle finalizzate a stimolare le iniziative e i comportamenti virtuosi delle famiglie. Un vero peccato, perché i servizi alla persona rappresentano la vera miniera inesplorata per far crescere l’occupazione nel nostro Paese e per dotarlo di un welfare sostenibile e rapportato ai bisogni delle persone.