Quando sento parlare di riforma dell’Irpef mi vengono letteralmente i brividi, perché ai vari proclami finora lanciati sono regolarmente succeduti aumenti di tasse sul reddito di chi, come me, appartiene alla classe media. Nella confusione di questi giorni, l’attenzione è caduta sulla revisione delle spese fiscali, cioè delle agevolazioni tributarie, introdotte a vario titolo dal Legislatore.



Il rapporto annuale sulle spese fiscali, allegato alla Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef), ne traccia un monitoraggio puntuale. Secondo l’approccio metodologico scelto dal legislatore, si definisce una spesa fiscale (“Tax expenditure”) valutando, “volta per volta, se una disposizione di natura agevolativa, rappresenti una caratteristica strutturale del tributo, riferita cioè al suo assetto “normale”, oppure rappresenti una deviazione dalla norma. Solo in questo secondo caso la disposizione sarà ritenuta spesa fiscale“, considerando, quindi, il carattere sistematico della norma agevolativa. Tale metodo consente, ad esempio, di escludere dal novero delle spese fiscali le detrazioni legate alla tipologia del reddito (lavoro dipendente, lavoro autonomo, pensione), le detrazioni per familiari a carico e le aliquote Iva ridotte (queste ultime dovrebbero poi entrare in un disegno complessivo di revisione, ma questo è un altro tema), con la conseguenza che non dovrebbero essere interessate da tagli o riduzioni; cosa non da poco, se confermata, visto che il fisco – non si capisce come – intende recuperare più di 7 miliardi di euro dalla lotta all’evasione fiscale.



Leggendo i risultati del rapporto, sono complessivamente 513 le spese fiscali classificate per categoria di spesa (“missioni” nel bilancio dello Stato) che ricomprendono diversi settori: agricoltura/agro-alimentare, energia, ricerca/innovazione, commercio, tutela della salute, istruzione scolastica e formazione, politiche previdenziali e per il lavoro, giovani e sport, turismo, ecc. Delle 513 voci, ben 142 sono riferibili all’Irpef, che fa la parte del leone, con oltre 111 milioni di agevolazioni e un costo di 39,29 miliardi di euro; a legislazione vigente saranno 39,68 miliardi nel 2020 e 40,13 nel 2021. L’Iva include 68 spese per oltre 1 milione di agevolazioni e un costo di 1,8 milioni di euro (sarebbero 1,55 milioni di euro nel 2020 e 1,53 nel 2021, in diminuzione perché le stime non tengono ancora conto della possibile neutralizzazione dell’incremento del tributo).



Tornando all’Irpef, 49 agevolazioni concesse a oltre 51 milioni di beneficiari sono relative alle detrazioni di imposta, per un ammontare di 16,4 miliardi di euro. Le deduzioni, che riducono l’imponibile sul quale si applicano le ritenute, assommano invece 42 voci, con oltre 37 milioni di beneficiari e ammontano a 9,24 milioni di euro. Tra esenzioni ed esclusioni vi sono poi, rispettivamente, 115 e 113 voci di spesa, che interessano un numero più contenuto – benché elevato – di beneficiari (più di 14 milioni e più di 8), per un costo di 4,47 e 4,96 milioni di euro: si tratta delle fasce di cittadini che, per incapacità reddituale o per altri motivi, non sono soggetti a determinate imposte.

Come si legge a margine del rapporto, “l’attuale Governo sostiene la necessità di una riduzione delle spese fiscali e dei sussidi dannosi per l’ambiente. […] Le linee programmatiche del riordino delle spese fiscali devono essere collocate all’interno degli obiettivi ambiziosi che il Governo intende perseguire. Obiettivo prioritario è il disinnesco delle clausole di salvaguardia previste a legislazione vigente che il Governo intende perseguire in parallelo all’alleggerimento della pressione fiscale e alla riduzione del cuneo fiscale sul lavoro per sostenere in particolare i redditi medio bassi. La revisione delle agevolazioni fiscali sarà mirata e orientata a rendere il sistema tributario più equo“.

Proprio per non disattendere questo nobile obiettivo, cioè rendere il fisco più equo e alleggerire la pressione fiscale, il problema della revisione delle tax expenditures va visto nel quadro di una complessiva revisione del sistema impositivo italiano, che è uno dei più articolati e complessi. Secondo uno studio condotto da Itinerari Previdenziali sui dati dell’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate 2019, su 20,93 milioni di lavoratori dipendenti dichiaranti (il 50,8% del totale dichiaranti), 8,27 milioni con reddito fino a 15.000 euro annui non pagano Irpef o per esenzione o per effetto del meccanismo delle deduzioni e detrazioni. I cittadini che dichiarano tra 15.000 e 20.000 euro di reddito (circa 3 milioni) pagano in media € 1.237 all’anno di Irpef, che non è sufficiente a coprire neppure la spesa sanitaria pro capite (€ 1.878 all’anno). Lo scaglione successivo, tra 20.000 e 35.000 euro (più di 7,26 milioni) versa in media € 4.000 di Irpef; quello tra 35.000 e 55.000 (1,6 milioni) versa oltre € 10.000 di Irpef: “I veri tartassati dal fisco – osserva Alberto Brambilla, Presidente di Itinerari Previdenziali – sono quelli da 35.000 euro dichiarati in su: pagano l’Irpef per un valore che va da 10.000 a oltre 28.000 euro”.

Vale la pena ricordare che il limite di ricchezza più volte dichiarato da esponenti politici varia da 55.000 a 100.000 euro di reddito lordo, che equivale all’incirca, compresi anche i contributi previdenziali, a un reddito netto da 30.000 a 60.000 euro: si tratta proprio di paperoni? Uno dei mantra ripetuti da politici giallo-verdi o giallo-rossi è che i soldi vanno presi dove ci sono; mi associo volentieri alla risposta data ancora dal prof. Brambilla in una recente intervista: “Questo lo dicano i ladri. La politica prenda i soldi dove è giusto prenderli”.