“Vuole la fattura?”. È questa la domanda sbrigativa che accompagna quasi sempre la fornitura diretta di un bene o servizio fatta a un normale acquirente italiano a partire dal lontano 1973, e che ha come ovvia conseguenza l’inclusione o meno dell’Iva nel conto finale. Una domanda quasi del tutto nuova rispetto alla situazione fino ad allora vigente, caratterizzata dalla presenza della più modesta (e assai meno invasiva) Ige, capitolo di storia passata della quale le attuali giovani generazioni italiane (giustamente) ignorano l’esistenza. Al contrario lo scrivente, allora agli inizi della propria carriera professionale, fu testimone del passaggio tra i due regimi fiscali e si cimentò nel tentativo di valutarne i guadagni o le perdite di gettito conseguenti (cfr. G. Pola “Prime considerazioni sul gettito dell’Iva nel 1973”, in Economia Pubblica n.5/6, 1974).
Secondo tali calcoli, a fronte di un imponibile (dato da consumi privati, acquisti della Pubblica amministrazione, investimenti non deducibili, meno le imposte indirette già pagate) pari a 56.600 miliardi di lire, il gettito teorico dell’Iva sarebbe dovuto essere dell’ordine di 5.300 miliardi, quando invece quello effettivo fu di 4.028 miliardi: l’evasione stimata (1.272 miliardi) era dell’ordine del 24%, con un netto calo rispetto al 30% stimato per l’Ige in vigore sino all’anno precedente. Tale diminuzione del resto era conforme alle attese e alle previsioni della maggior parte degli studiosi ed esperti di problemi fiscali, come logica deduzione dal fatto che in regime di Iva vi è una contrapposizione di interessi tra venditori e acquirenti, assente nel regime Ige.
Sembrava dunque, quello del 1973, un debutto virtuoso del nuovo tributo, e tale da fare sperare in una futura ulteriore restrizione dei margini di evasione italiana della tassazione indiretta, ovvero un gap inferiore a quel 24% stimato dal sottoscritto e accettato dagli studiosi dell’argomento.
Quasi mezzo secolo dopo, purtroppo, si deve constatare che la situazione non è migliorata, come ci dice un recente contributo (cfr. M. Taddei su La Voce del 24/9/2020: “Sull’evasione Iva l’Italia mantiene il suo triste primato”) che riporta e commenta le rilevazioni effettuate anche quest’anno, come d’abitudine, dalla Commissione europea sul Vat gap dei Paesi membri; in questo caso la situazione citata è quella in essere al 2018, e viene confrontata con quella del 2017. Il Vat gap è ovviamente calcolato confrontando le grandezze Iva potenziali (stimate a partire dai dati macroeconomici, in modalità non troppo diverse da quelle usate dal sottoscritto per il 1973) con quelle dichiarate al fisco, e per il 2018 viene stimato nel 25% circa.
Come emerge dal suddetto Rapporto, nonostante il dato sia ancora particolarmente elevato (vedasi confronto con gli altri Paesi Piigs – Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), l’Italia del 2018 ha migliorato a la propria capacità di raccogliere l’Iva rispetto agli anni immediatamente precedenti, quando la perdita in percentuale del gettito potenziale era stata anche di quasi un terzo. La stessa Commissione prevede un ulteriore miglioramento nel 2019, ma per il corrente anno 2020 è invece ipotizzata una nuova crescita del differenziale, causata in questo caso più dal disastro sanitario che dall’intensificazione di quella “propensione all’ evasione fiscale” che resta pur sempre nel DNA degli italiani.