Tra non molto si conosceranno i dettagli della Legge di bilancio per il 2025. Una manovra che, secondo Mario Baldassarri, ex viceministro dell’Economia e Presidente del Centro studi EconomiaReale di Roma e dell’Istao di Ancona, rappresenta la controprova del fatto che nel Piano strutturale di bilancio inviato a Bruxelles «mancano le riforme strutturali necessarie a far aumentare la crescita potenziale del Paese, tant’è che le previsioni relative al Pil dei prossimi sette anni stazionano intorno all’1%».
Questo andamento del Pil non dipende anche dalla necessità di far diminuire il disavanzo e il debito pubblico?
Il Piano strutturale di bilancio mostra una diminuzione di deficit e debito, anche se a dire il vero per quest’ultimo la discesa viene prevista a partire dal 2026. Il problema è che se accettiamo una crescita asfittica come quella stimata, il percorso di rientro avverrà molto lentamente. Bisognerebbe implementare le riforme in grado di portare la crescita strutturale del Pil sopra il 2% annuo, la principale delle quali è la ristrutturazione del bilancio pubblico sia dal lato delle entrate che delle uscite. La manovra è purtroppo la controprova della mancanza di queste riforme.
In che senso ne è una controprova?
La manovra vale circa 30 miliardi di euro, di cui 15 necessari a confermare il taglio del cuneo contributivo e la riduzione delle aliquote Irpef per i ceti medio-bassi in scadenza a fine anno, misure che non daranno, quindi, un nuovo impulso alla crescita. Per quanto riguarda gli altri 15 miliardi, si tratta di una cifra che rappresenta meno dell’1% del Pil e che non può quindi modificare la crescita strutturale di un’economia come quella italiana.
Cosa pensa delle misure contenute nella manovra?
Per quel che ne sappiamo al momento, l’indirizzo qualitativo – la conferma del taglio del cuneo fiscale e della riduzione delle aliquote Irpef, gli interventi a sostegno delle famiglie con figli e della natalità, il rinnovo dei contratti della Pa e la priorità data alla spesa per la sanità – appare condivisibile, il problema è l’aspetto quantitativo. Per esempio, sono previsti tagli alle spese dei ministeri per 3 miliardi di euro. Si tratta di una cifra irrilevante rispetto ai 1.200 miliardi circa di spesa pubblica complessiva. Inoltre, va detto che non si dovrebbe parlare di tagli di spesa, ma di spostamento delle risorse da una posta un’altra del bilancio pubblico. Non a caso questa “spending review” è finalizzata a reperire le coperture per le misure contenute nella manovra.
Ci sarebbe voluta una manovra più consistente?
Il bilancio per il 2025 che verrà sottoposto al Parlamento per approvazione avrà come totale della spesa circa 1.200 miliardi e come totale delle entrate circa 1.100 miliardi. Se al suo interno la “manovra aggiuntiva” rispetto alle misure già in vigore è di circa 15 miliardi, allora cambierà ben poco rispetto a quest’anno. Se si fosse messa a punto una manovra più consistente, in grado di spostare le potenzialità di crescita economica negli anni futuri portandola sopra il 2%, automaticamente il rientro della finanza pubblica sarebbe stato più rapido e forte, perché alimentato appunto dalla crescita.
Come ci ha ribadito qualche mese fa, con una riforma fiscale da 60 miliardi si potrebbe arrivare a una crescita del Pil superiore al 2%.
Sì, per finanziarla non è possibile ricorrere all’aumento del deficit. Da decenni sostengo che nel bilancio pubblico ci sono almeno 150 miliardi di spesa improduttiva in specifici capitoli. Ritengo che tagliando 20 miliardi di sprechi negli acquisti di beni e servizi e riducendo di altrettanti miliardi sia le risorse a fondo perduto che le tax expenditures (il cui ammontare complessivo è di 180 miliardi), si potrebbero reperire 40 miliardi per ridurre l’Irpef e 20 miliardi per abolire l’Irap.
Operazioni non semplici da portare in porto in pochi mesi…
Vero, ma si può sempre predisporre un piano di 3-4 anni per incominciare un percorso credibile nel quale si indicano anno dopo anno quali tax expenditures, risorse a fondo perduto e voci di spesa vengono progressivamente toccate.
Nei giorni scorsi si è continuato a discutere sia della revisione delle rendite catastali per gli immobili che hanno usufruito del Superbonus che della tassazione degli extraprofitti realizzati dalle imprese di alcuni settori. Lei cosa ne pensa?
Riguardo le rendite catastali, non mi sembra ci sia nulla di rivoluzionario: si tratta solo di far emergere le cosiddette “case fantasma” che non sono registrate e fare in modo che le rendite degli immobili oggetto di lavori con il Superbonus riflettano il valore conseguito tramite denaro pubblico. Tra l’altro nel nostro Paese la tassazione che si basa sulle rendite catastali è minima. Penso che il mondo politico dovrebbe affrontare in modo più serio e razionale questo argomento, come quello relativo ai cosiddetti extraprofitti.
Perché cosiddetti?
La teoria economica degli ultimi 250 anni non ha mai parlato di extraprofitti. Si parla invece, per merito di quel gigante dell’economia mondiale che è stato Paolo Sylos Labini, l’abuso di potere di mercato oligopolistico. Se il margine di utile di un’impresa deriva da un abuso di potere di mercato non siamo di fronte a un profitto, ma a un rendita di posizione. Negli Stati liberali democratici sono le autorità garanti della concorrenza a dover contrastare l’abuso di potere di mercato. In questi anni dall’Antitrust italiana in merito all’incremento delle bollette o sui tassi di interesse aumentati per i mutui e non sui conti corrente è arrivato solo un assordante silenzio.
È dunque l’Autorità garante della concorrenza e del mercato a doversi occupare di questo tema?
Non deve essere il Governo ex post, una volta che i profitti sono stati realizzati, a chiedere che vengano restituiti in parte tramite l’imposizione fiscale, ma è chiamata a intervenire l’Antitrust: tra i suoi compiti, infatti, c’è quello di evitare gli abusi di potere di mercato e sanzionarli efficacemente laddove si verificano.
(Lorenzo Torrisi)
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