Insieme all’emergenza del riscaldamento globale quello delle disuguaglianze costituisce uno dei temi principali tra le priorità della politica a livello globale e quindi di ogni singolo Paese. Due problemi peraltro accomunati da un forte punto in comune: il fatto che si ritiene comunemente siano frutto di un modello di sviluppo basato sullo sfruttamento delle risorse da una parte e sulla concentrazione della ricchezza e del potere dall’altra. Senza particolari differenze tra neoliberismo occidentale da una parte e comunismo autoritario dall’altra: anche in Cina vi è ormai una fascia sociale di super ricchi e nello stesso tempo Pechino con l’uso intensivo del carbone è ormai uno dei maggiori inquinatori del pianeta.



Le disuguaglianze peraltro non sono un portato del capitalismo e quindi delle società fondate sull’industria e sul libero mercato degli ultimi secoli, ma esistono da quando esiste il mondo. Pur con forme diverse, con squilibri più o meno forti, con conseguenze sociali più o meno pesanti. Lo dimostra, con l’evidenza dei fatti, lo storico austriaco, con cattedra alla californiana università di Stanford, Walter Scheidel nel suo ultimo libro La grande livellatrice (Il Mulino, 2019), un libro innanzitutto storico che ha il pregio di liberare il campo dai falsi miti che spesso si accompagnano al tema delle disuguaglianze, soprattutto quando viene utilizzato ai fini della polemica politica.



La prospettiva storica mette in luce per esempio come la stabilità politica e uno sviluppo economico ordinato hanno sempre favorito la disuguaglianza economica. “Questo è vero – scrive Scheidel – per l’Egitto dei faraoni come per l’Inghilterra vittoriana, per l’Impero romano come per gli Stati Uniti d’America”. Nella storia gli unici elementi che hanno ridotto le disuguaglianze sono stati gli shock violenti, quelli che vengono chiamati “i quattro cavalieri”. E quindi le guerre con la mobilitazione generale della popolazione, le rivoluzioni, il crollo dello Stato e le pandemie letali. Tutti avvenimenti che hanno contrassegnato i secoli scorsi, ma che nessuno spera possano ripetersi in futuro.



E allora è necessario rassegnarsi alle disuguaglianze? Il rischio di fondo delle politiche che vengono proposte per affrontare questo problema è quello di affidare il compito solo alla falce livellatrice del fisco penalizzando gli alti redditi e i grandi patrimoni, molto più di quanto avvenga ora nella maggior parte dei Paesi. Un fisco equo e progressivo è certamente indispensabile, mentre più problematico diviene un fisco punitivo che avrebbe l’effetto di mettere un freno alla dinamica economica e allo spirito di iniziativa individuale. Anche perché i grandi ricchi hanno la possibilità di sfruttare i paradisi fiscali. E ce ne sono anche poco lontano, come il Lussemburgo o il Portogallo.

È passata giustamente alla storia la frase del premier svedese Olof Palme, assassinato nel 1986: “Noi democratici non siamo contro la ricchezza ma contro la povertà. La ricchezza, per noi, non è una colpa da espiare, ma un legittimo obiettivo da perseguire. Ma la ricchezza non può non essere anche una responsabilità da esercitare”.

Lo stesso effetto di freno alla dinamica economica può essere causato anche dalle politiche assistenziali e di redistribuzione, politiche anche queste indispensabili che tuttavia rischiano, come nel caso dell’italico reddito di cittadinanza, di costituire un incentivo al disimpegno o al lavoro nero.

Senza dimenticare come i sistemi di welfare, soprattutto in Europa, saranno messi a dura prova nei prossimi anni dagli effetti sempre più forti di un calo demografico di cui si comincia a parlare con preoccupazione. Ma per contrastare il quale non sembrano esserci scelte conseguenti a livello politico e sociale. Anche perché tutti i paesi europei sembrano intenzionati a mantenere dei forti limiti alle immigrazioni che attenuerebbero anche se non risolverebbero tutti i problemi che l’invecchiamento porta con sé.