I dati sull’inflazione pubblicati venerdì contengono numerosi messaggi: al mercato, alla Banca centrale europea, al Governo italiano. A dicembre in Europa il tasso d’inflazione è salito del 2,9%, mezzo punto in più rispetto al mese precedente. Ma se togliamo dall’indice i prodotti energetici vediamo che la dinamica dei prezzi è rimasta al 2,4%. Meglio ha fatto l’Italia con appena lo 0,6%, che porta la media annua al 5,3% rispetto all’8,1% del 2022. Anche nel caso italiano la frenata dei costi per l’energia ha avuto un impatto determinante. I dati confermano che l’Italia è stata più efficace nello sganciarsi dalla dipendenza russa e nel trovare alternative.
Si può dire, in generale, che l’inflazione si sta riducendo, anche se resta su un livello più elevato rispetto all’obiettivo del 2% fissato dalla banca centrale, che verrà raggiunto se nulla cambia alla fine di quest’anno. Quali conseguenze si possono trarre per la politica economica?
I mercati avevano scommesso che la frenata, se confermata come sembra, dovrebbe spingere le banche centrali ad allargare i cordoni della borsa: niente più aumento dei tassi, al contrario dovrebbero cominciare a scendere. L’ipotesi era che ancora una volta potesse aprire le danze la Federal Reserve fin dal prossimo marzo. L’economia americana non smette di creare posti di lavoro, la disoccupazione al 3,7% è vicina al minimo assoluto, il Pil cresce (+5,2% il dato del terzo trimestre), tutte buone notizie, ma alla Fed temono che questo possa far ripartire i prezzi grazie alla pressione dei salari. Un bel dilemma che molto probabilmente Jay Powell risolverà come Quinto Fabio Massimo di fronte ad Annibale. Wait and see, più che benvenuto da Christine Lagarde che non s’azzarderebbe a muoversi per prima.
Insomma, per le banche centrali è troppo presto per far scendere i tassi. E questo fa venire i brividi al Governo italiano, che conta proprio su un minor costo degli interessi sul debito pubblico per evitare guai peggiori a un bilancio dello Stato che quest’anno avrà ancor più guai che nel 2023.
Il problema più serio è che il piatto piange. Mentre la Nadef prevede per l’anno prossimo un deficit pubblico generale pari al 4,3% del prodotto lordo, il disavanzo del settore statale (cioè le entrate meno le spese effettuate dal Tesoro) sarà del 6,3%, due punti in più, un divario che si trascinerà anche nel 2025: 5,6% invece di 3,6%. Facciamo i conti in valori assoluti: quest’anno si tratta di 134 miliardi di euro e saranno 124 nel 2025. Dal lato delle entrate si prevede una riduzione di quelle dirette (-2,8%) anche perché il Superbonus edilizio verrà contabilizzato come minor gettito Irpef, secondo i criteri di Eurostat. Sono in aumento le spese per le pensioni e le prestazioni sociali, si riduce sia pur di poco la sanità (-1,5%) e vengono tagliate le uscite in conto capitale (-26% pari a oltre 34 miliardi di euro) puntando a compensarle con gli investimenti del Pnrr. Sarà determinante rispettare tutte le scadenze per ricevere in tempo le varie tranche di finanziamenti da Bruxelles, decisivi anche per non allargare il buco nelle casse dello Stato.
Continueranno a crescere gli interessi passivi pagati sul debito pubblico: dal 3,8% al 4,2% del Pil secondo la Nadef. In quantità, si dovrebbe passare dagli 80 miliardi dello scorso anno a 88,6 miliardi. Se invece i tassi della Bce cominciassero a scendere, il Tesoro potrebbe trarre una boccata d’ossigeno. È tanto più importante in quanto l’Italia non potrà più contare sul salvagente della Bce. Quest’anno le emissioni complessive ammontano a 554 miliardi di euro, 90 miliardi in nuovi Btp. A Francoforte si sta discutendo come gestire il gonfio portafoglio titoli e nello scenario base ci saranno 40 miliardi in meno che salgono a 66 miliardi nello scenario più rischioso. Chi comprerà dunque i nuovi Btp? I depositi bancari delle famiglie si stanno riducendo per colpa dell’inflazione, anche le riserve bancarie in eccesso sono in discesa. Insomma, le istituzioni finanziarie italiane verrebbero chiamate ad assorbire oltre la metà dell’offerta netta il prossimo anno.
La cassa da riempire, i debiti da pagare, con un’economia che rallenta: un’equazione difficile da risolvere per il Governo. La speranza di varcare indenne le elezioni europee di giugno trova nel suo cammino il nuovo Documento di economia e finanza da presentare ad aprile, quando bisognerà fare i conti e scrivere cifre credibili. Carta canta e la canzone sarà una politica di bilancio ancora una volta senza veri margini. La scommessa è che possa essere definita sobria e non restrittiva, ma le parole ornate cederanno comunque di fronte agli impietosi numeri.
Tutto questo non ha niente a che vedere con manovre oscure o ricatti di Bruxelles, sono i conti italiani a non lasciare spazi per rilanciare una crescita tornata magra, anche se le imprese e le famiglie nel loro insieme stanno dimostrando una notevole capacità di reagire e di contenere l’impatto perverso dell’inflazione. A questo punto, la politica basata sugli annunci e le promesse dovrà lasciare spazio ai fatti sui quali si baserà il giudizio degli elettori.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.