Meglio tardi che mai e meglio poco che nulla. Questo può essere il commento più sintetico possibile alla decisione di giovedì del board della Bce di ridurre di un quarto di punto i tassi, dopo nove mesi in cui essi erano stati tenuti fermi e il tasso d’inflazione al consumo continuava invece a ridursi. Non cambia invece in alcun modo il giudizio negativo che abbiamo da parecchio tempo formulato sull’adeguatezza della politica monetaria che è stata condotta dalla Bce durante e dopo l’inflazione importata dall’Europa assieme al gas.
Bisogna ricordare che la politica monetaria, allo stesso modo della politica fiscale, è una politica anti-ciclica che dovrebbe fungere da freno nei periodi in cui la macchina economica corre troppo e da acceleratore nei periodi in cui tende a fermarsi. E svolge la sua funzione frenando la domanda, in particolare quella per investimenti ma anche quella per consumi, nel primo caso e cercando di alimentarla nel secondo. Tuttavia, essa è e resta una politica dal lato della domanda, che trova il suo terreno ideale d’impiego quando l’inflazione che si verifica è una conseguenza dell’accelerazione economica. Ma l’inflazione europea del 2022-23 non è stata un fenomeno dal lato della domanda bensì dal lato dell’offerta, generata dagli alti prezzi dell’energia trainati da quello del gas durante la crisi provocata dalla Russia.
Quando si verificano tensioni di questo tipo, come imparammo negli anni ’70 degli shock petroliferi, gli effetti sulle economie che dipendono dalle importazioni di energia sono negativi da un duplice punto di vista: quello dell’inflazione e quello gemello della recessione o comunque stagnazione economica. Ai tempi fu coniato il termine “stagflazione” per descrivere l’abbinamento dei due principali “mali” economici e come già fu chiaro all’epoca le politiche dal lato della domanda finiscono per rivelarsi armi spuntate. Cosa possono fare se l’inflazione non si accompagna a una crescita economica troppo veloce, bensì a una recessione? Se sono usate in senso restrittivo migliorano l’inflazione ma peggiorano la recessione, mentre se sono usate in senso espansivo migliorano la recessione ma peggiorano l’inflazione. In sostanza non risolvono il “male” ritenuto più pericoloso, ma si limitano a convertirlo nel secondo, che viene pertanto aggravato.
Come si è comportata la Bce durante questo nuovo evento di shock energetico e di inflazione importata che affligge il lato dell’offerta? Sino alla metà del 2022, e sino alla vigilia di un tendenziale d’inflazione a due cifre nell’euro area, ha tenuto i tassi assolutamente fermi all’incredibile livello zero, a cui erano correttamente pervenuti nella lunga epoca Covid. Poi nei quattordici mesi trascorsi tra luglio 2022 e settembre 2023 con dieci rialzi consecutivi ha fatto salire i tassi di riferimento di quattro punti percentuali e mezzo, portando il tasso principale proprio al 4,5%. Tuttavia, dopo aver raggiunto il tendenziale record dell’11,5% a ottobre 2022, a partire dal successivo mese di novembre l’inflazione al consumo dell’euro area si avviava su un percorso di continua riduzione, che l’avrebbe portata sotto il 5% a settembre 2023, più che dimezzandola rispetto al picco di ottobre 2022, e dimezzandola una seconda volta da allora e sino a maggio 2024.
Per un lungo intervallo di tempo in cui l’inflazione continuava a salire la Bce ha tenuto i tassi a zero, sostenendo che si trattasse di un fenomeno transitorio destinato ad autoestinguersi. Poi ha improvvisamente cambiato idea e inanellato una lunga serie di aumenti consecutivi dei tassi proprio quando il fenomeno aveva iniziato a dare segni di attenuazione. Ha dunque sbagliato prima oppure dopo? In realtà, ha sbagliato in entrambi i momenti…
Riavvolgiamo dunque il nastro della pellicola e riavviamo il film dall’inizio. Un’inflazione da shock energetico è destinata ad arrestarsi dopo che i prezzi delle materie prime importate avranno smesso di crescere e il loro effetti si saranno propagati sui prezzi dei beni che necessitano dell’energia per essere prodotti e anche, in ultimo e in maniera più limitata, su quelli dei servizi. Questo a condizione che non si generi, come avvenuto negli anni ’70, una spirale prezzi-salari. Nel caso della crisi del gas russo essa non si è verificata per l’assenza di meccanismi di indicizzazione automatica dei salari ai prezzi e anche per l’assenza di condizioni di scarsità di manodopera sul mercato del lavoro.
In questo modo l’inflazione da cui siamo usciti è stata davvero un fenomeno transitorio, e la disinflazione è stata favorita dalla discesa dei prezzi del gas e dal loro ritorno a quotazioni pre-crisi. Ma il fatto di essere transitorio non implica necessariamente di essere anche di brevissimo periodo e di tenue consistenza e di non avere necessità di politiche di contrasto. Su questi aspetti la Bce, allo stesso modo della Fed Usa, si è sbagliata ed è rimasta inattiva troppo a lungo. Un’inflazione a due cifre non può certo giustificare tassi nulli…
Ma in seguito la Bce ha cambiato radicalmente idea e ha alzato i tassi troppo e troppo tardi, quando ormai l’inflazione stava spontaneamente avviandosi al tramonto. Sono dunque gli alti tassi ad aver cancellato l’inflazione?
Abbiamo sostenuto di no diverse volte in passato. È stata solo concomitanza, non causalità. Infatti, per essere efficace sui prezzi la politica degli alti tassi avrebbe dovuto produrre recessione ,ma per nostra fortuna questo non si è verificato. Certo, il Pil europeo si è fermato in termini reali per più di un anno, ma la temuta recessione non è avvenuta. È successo che la domanda interna ha retto e gli alti tassi non l’hanno sconvolta. In particolare, le famiglie hanno mantenuto i livelli dei loro consumi finanziando il maggiore costo della spesa per via dell’inflazione coi risparmi accumulati durante i lockdown del Covid. Senza di essi avrebbero invece ridotto i consumi e pertanto gli alti tassi Bce avrebbero prodotto parecchi danni, portando a una recessione vera e propria.
È dunque benvenuta la decisione della Bce di ridurre di un quarto di punto i tassi che così è stata giustificata: “Sulla base di una valutazione aggiornata delle prospettive di inflazione, della dinamica dell’inflazione di fondo e dell’intensità della trasmissione della politica monetaria, è ora opportuno moderare il grado di restrizione della politica monetaria dopo nove mesi di tassi di interesse invariati. Dalla riunione del Consiglio direttivo di settembre 2023 l’inflazione è diminuita di oltre 2,5 punti percentuali e le prospettive di inflazione sono migliorate notevolmente. Anche l’inflazione di fondo è scesa, rafforzando i segnali di un indebolimento delle pressioni sui prezzi, e le aspettative di inflazione hanno registrato una flessione su tutti gli orizzonti”. Ma non è vera invece, alla luce delle considerazioni precedenti, la parte seguente del comunicato stampa della Bce: “La politica monetaria ha mantenuto restrittive le condizioni di finanziamento. Frenando la domanda e facendo sì che le aspettative di inflazione restassero ben ancorate, ciò ha contribuito in misura rilevante al rientro dell’inflazione“.
Avrà la Bce il coraggio di proseguire nella riduzione dei tassi? Non è detto: “Malgrado i progressi degli ultimi trimestri, persistono forti pressioni interne sui prezzi poiché la crescita delle retribuzioni è elevata; l’inflazione resterà probabilmente al di sopra dell’obiettivo fino a gran parte del prossimo anno. Le ultime proiezioni formulate dagli esperti dell’Eurosistema per l’inflazione complessiva e quella di fondo sono state riviste al rialzo per il 2024 e il 2025 rispetto alle proiezioni di marzo. Gli esperti indicano ora che l’inflazione complessiva si collocherebbe in media al 2,5% nel 2024, al 2,2% nel 2025 e all’1,9% nel 2026″.
La sintesi è che la Bce non si è spaventata dell’inflazione sinché non stava arrivando alla doppia cifra, ma ora resta in uno stato di preoccupazione per un tendenziale che è solo di pochi decimali superiore al mitico 2% obiettivo. Ha verificato la Bce se i casi in cui i salari sono aumentati sono stati finanziati dalle imprese che li hanno concessi tramite maggiori profitti, correnti e passati? Se è così, ed è una verifica facile da realizzarsi, l’Europa non corre alcun rischio di spirale prezzi salari e non è il caso di impiccarne la crescita a tassi reali eccessivi.
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