TE DEUM. Ma ve li immaginate i nostri nonni che danno la colpa della guerra al 1944 e si affidano al capodanno del 1945 perché tutto possa andare meglio? Paolo di Tarso chiamava questo fenomeno “dipendenza dagli elementi del cosmo” e si fregiava di appartenere ad un popolo che era stato sciolto dalla paura che la vita prendesse una certa piega a seconda della posizione degli astri, del numero degli anni o dei presagi naturali.



Sono mesi che ci viene detto che il 2020 è l’anno peggiore di sempre, che si ironizza per esorcizzare, che si attribuisce al cambio d’anno un’irrazionale speranza e si tratta il tempo che stiamo vivendo come un incubo, una parentesi, una maledizione. Eppure anche stasera la Chiesa cattolica ha fissato in migliaia di chiese nel mondo l’esecuzione dell’antico inno del “Te Deum”, un canto di ringraziamento e di benedizione per quello che durante l’anno ci è stato donato. Perché la Chiesa, sulle orme di Paolo, sa che la vita si decide sia a partire dalla libertà con la quale la si accoglie e la si vive, ma soprattutto nel riconoscimento della Grazia che la attraversa.

L’Apostolo era grato di aver ricevuto dal Mistero di Dio uno sguardo nuovo, uno Spirito nuovo con cui “vagliare tutto” per trattenerne il valore. Egli non aveva bisogno di censurare nulla, né le divisioni presenti in seno alla Chiesa (niente di nuovo sul fronte occidentale), né la situazione economica o politica del tempo, per poter ringraziare.

Si può vivere dicendo grazie e guardando in faccia un matrimonio che fatica a reggersi, la morte di una persona cara, la malattia, un dolore indicibile, la paura per quel che sta accadendo, l’incertezza sociale che ci minaccia. Questo può accadere non per un puro spiritualismo, per un ottimismo nichilista o per una consolazione sentimentale, ma per la scoperta di sé che ciascuno di noi ha potuto fare durante quest’anno. Io non ringrazio perché va tutto bene, perché sono vivo o in salute (anche se, già qui, ce ne sarebbe da ringraziare), ma ringrazio per l’esperienza di conoscenza che mi è capitata, per come dentro tutto ho preso sempre di più familiarità con me e con il Mistero della vita. Non rinnego le lacrime che ho versato, non fuggo dai giorni bui, dalla rabbia, da quel senso di impotenza che ha spezzato tanti nostri gesti e nostre tradizioni ormai abituali nel cammino dell’anno, ma posso toccare con mano che ogni cosa è successa perché là dove c’era l’abitudine si riaprisse la domanda, là dove dominava la distrazione si facesse largo la ricerca, là dove tutto era scontato si riaffacciasse lo stupore e la sorpresa.

Nessuno era pronto al 2020. Nessuno era pronto a dire addio, a salutare grandi amici, a vedere un mondo che finiva per sempre, ma tutti hanno potuto fare una strada in questo 2020. E quello che in questo ultimo giorno dell’anno rimane non sono le statistiche sull’epidemia, le elezioni americane o i banchi con le ruote, non è neppure quello che io ho fatto della Grazia che mi è stata data: non domina quello che ho vinto o quello che ho perso, ma quello che rimane è questo ultimo tratto di tempo in cui la Chiesa ha pietà di me e, come una mamma, mi toglie con tenerezza il cappello dalla testa e mi dice: “Dai, inginocchiati e ringrazia!”. “Non stare lì a crogiolarti nei tuoi bilanci e nei tuoi inventari fatti senza amore!”. “Guarda Me, guarda come non ti ho perso di vista, come tante volte – mentre piangevi o ti perdevi – sono entrato nella tua stanza e mi sono messo lì, accanto a te, seduto a guardarti e a farti compagnia”.

Ciò che rimane di quest’anno sono queste poche ore in cui ognuno può sentire su di sé questo sguardo di pietà, di misericordia e di verità. Uno sguardo che riaccende il desiderio, la voglia di ripartire, di ricominciare, di non perdere tempo a lagnarsi e di costruire spazi di vita più umani, più limpidi, più capaci di attenzione alle povertà dell’esistenza e alla nostra casa comune.

Quel che resta di quest’anno è l’inaudita generosità di un Dio che ci offre ancora una volta la possibilità di percepire, dentro i marosi della storia, un altro mondo che viene e che ci cambia. In questo mondo. Certi che a guidare la barca ci sia uno che possiamo chiamare “Amico”. Che possiamo ancora chiamare “Padre” e a cui possiamo dire “Te Deum laudamus”: non saremo confusi in eterno.