Potrebbe sembrare marginale, la notizia che arriva da Piove di Sacco, provincia di Padova, in un tempo dominato da ben altre preoccupazioni. Eppure io credo che sia la spia di un fenomeno importante, da guardare.
Innanzitutto, i fatti. Un ragazzo di una quinta superiore copia un tema da internet, l’insegnante se ne accorge, gli dà un bell’“1”. Ma non finisce qui, anzi: l’insegnante in questione pubblica il tema incriminato su Facebook. E qui si scatena la bufera. Ha violato le norme sulla privacy, gridano gli accusatori. Non è vero, ribatte l’interessata, il tema è anonimo, l’autore non è riconoscibile. Non importa, replica l’accusa, si tratta di un atto riservato, non può comunque essere reso pubblico. La disputa è cresciuta di tono, ha coinvolto il sindaco della città, l’ufficio scolastico regionale, poi l’opinione pubblica.
Che dire? Non si tratta di schierarsi pro o contro l’insegnante in questione, anche perché tutte le implicazioni dovranno essere accertate nelle sedi opportune, ma di provare a mettere in luce i problemi che questa vicenda sottende.
Un primo problema è antico: è l’incapacità – antica, ripeto – della scuola italiana a distinguere l’aspetto strettamente cognitivo del nostro lavoro da quello più ampiamente formativo, o educativo. Quante volte abbiamo sentito un insegnante dire: “ti meriteresti 7, ma ti do 6 perché non stai mai attento”, “sarebbe da 6, ma gli do 5 perché se no poi si siede”, o cose del genere. È un’abitudine talmente radicata che ci sembra normale.
Ma c’è dentro un equivoco che rischia di confondere le cose. Il voto su una prova deve essere un giudizio sul valore di quella prova, deve dire quanto quella prova risponde alla richiesta che è stata fatta. Se poi occorre dare un giudizio sull’atteggiamento dell’alunno, sulla sua serietà nello svolgerla, sul modo in cui sta in classe e così via, gli strumenti sono altri, a partire dal voto sul comportamento. Mescolare le due cose – il “profitto” e la “condotta”, come si diceva una volta – non aiuta i nostri studenti a capire: non capiscono se quello che stiamo giudicando è quello che effettivamente sanno, o sanno fare, oppure qualcos’altro. E finiscono per liquidare questi voti ambigui con un “il professore ce l’ha con me” che non aiuta a raggiungere lo scopo, pur buono, che si vorrebbe ottenere.
Certo, si ribatte, c’è il voto di condotta, ma non conta niente, solo se andiamo su quelli di profitto, se vedono a rischio la promozione, i ragazzi capiscono. Una risposta che ha le sue ragioni, e che ci introduce alla seconda, e più importante, delle considerazioni sulla vicenda.
Oggi risulta sempre più difficile “fare lezione”: certo, talvolta ciò dipende da una didattica passiva e trasmissiva; ma è altrettanto vero che tanti tentativi di bravi insegnanti devono fare i conti con demotivazione, con fragilità personali, con ragazzi non sempre disposti ad accettare il lavoro, la fatica, le regole che l’istruzione richiede e pronti a cercare vie di fuga, giustificazioni, a volte con la complicità dei genitori.
È in questo clima che, forse, si può leggere la vicenda di Piove, una sorta di – come si direbbe in linguaggio sportivo – “fallo di reazione”, o forse “fallo di frustrazione”: se le cose stanno così, come affrontare la quotidiana sfida che si gioca nell’ora di lezione? Se i fattori “estrinseci” (“il voto”) non reggono più, se per di più le armi dell’informatica che i nostri ragazzi sanno usare mille volte meglio di noi vanno tutte a vantaggio delle loro furberie – trovano in rete tutte le traduzioni di latino, la soluzione di tutte le equazioni, le risposte a ogni domanda… – come si fa a combattere ad armi pari? Certo, gli studenti hanno sempre cercato di fare i furbi, di copiare: ma i bigliettini nell’astuccio, le scritte sui polsi, erano niente a confronto delle risorse del web. Contro quelli si poteva combattere ad armi pari; contro internet abbiamo perso in partenza. Per non parlare degli usi collaterali: le chat di studenti e genitori in cui il professor Tale è messo alla berlina, la professoressa Talaltra è sbeffeggiata…
E allora si può capire che a un certo punto un insegnante pensi di scendere sullo stesso campo di battaglia, di usare Facebook per stigmatizzare pubblicamente un comportamento. Non sto dicendo che l’insegnante di Piove di Sacco abbia fatto bene a farlo; sto solo dicendo che provo a immedesimarmi in lei, e mi immagino che lo abbia fatto con l’intenzione di combattere un comportamento inadeguato, non di esporre il suo alunno al pubblico ludibrio.
Ma non ci si può fermare qui. Se la situazione è questa, se induce insegnanti pur benintenzionati a modi inadeguati di svolgere il proprio compito, che cosa possiamo fare? Nessuno ha la bacchetta magica; però è chiaro che questa situazione ci chiede – chiede a noi, uomini e donne di scuola – un passo in più.
Chiede che i consigli di classe, i collegi docenti, non siano solo luoghi in cui si dettano i voti, si raccolgono le programmazioni, si stilano progetti; ma diventino ambiti in cui si possano mettere a tema le difficoltà del lavoro, ci si possa sostenere nell’arduo compito di individuare modi di fare scuola più adeguati alla realtà di oggi, che è fatta di questi ragazzi e di questa tecnologia. Chiede magari di mettersi insieme, al di là di consigli di classe e di collegi docenti, con insegnanti amici, con colleghi che magari riescono di più ad affrontare la situazione.
Una volta – questa mitica “una volta” che ognuno colloca da qualche parte e colora con le tinte della sua storia – ciascuno poteva bastare a sé stesso, protetto dalle fortezze delle regole e della disciplina; oggi la realtà chiede di mettersi insieme, di sostenersi, di aiutarsi in questo compito sempre più difficile. Ne va della vita nostra e di quella dei nostri studenti.
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