Tempo di Pasqua. Tempo di riflessione e di perdono. Specialmente all’epoca del colera, della peste, sotto pandemia, quando la paura, la sfiducia e il rancore, anticamera della disperazione, sovrastano talvolta la speranza.
È stato relativamente facile sopportare il primo lockdown. Un anno fa, ormai. Per tanti, il male era localizzato “altrove”. In certe ben definite aree del Nord. In Val Padana. A Bergamo. Nel resto del Paese, di fatto libero dal contagio, ci si poteva abbeverare a facili speranze a buon mercato. Sentirsi persino generosi, premurosi e solidali. Andrà tutto bene! Oggi il virus è ovunque. Siamo tutti bergamaschi. Provate a cantare “O Sole Mio” dal balcone di casa, se vi riesce! La tentazione di lasciarsi prendere dal panico, dalla diffidenza e dall’astio, di borbottare un “Si salvi chi può” egoista, prepotente e asociale è forte. Il nostro desiderio di libertà si offusca, la nostra percezione del vero decade. Temiamo e allo stesso tempo agogniamo un “salvatore della patria”, un “uomo della provvidenza” che ci liberi da una troppa onerosa responsabilità.
Per timore, egoismo e distrazione chiudiamo la porta a Cristo, che sulla croce ci ha attirato a sé con la sola forza della verità che persuade e dell’amore che attrae. Che, desacralizzandoli ab aeterno, ci ha emancipato da tutti i poteri del mondo. E assieme alla libertà è la nostra personalità, la nostra consistenza di uomini che viene meno. Sono state le controversie cristologiche e trinitarie dei primi secoli a dare corpo ontologico al nostro concetto di persona. Anche senza sospettarlo, ancora oggi, là dove il cristianesimo ha messo radici, guardiamo l’uomo guardando Cristo. La Sua unicità e la Sua trascendenza definiscono le caratteristiche fondamentali dell’umano. Come scrisse Benedetto XVI (Spe Salvi, 47): “Alcuni teologi recenti sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi”.
Tempo di Pasqua. Tempo in cui, ogni giorno, muoiono più persone che sotto il terremoto de L’Aquila. Senza che ciò ci scandalizzi più di tanto perché è già un’abitudine. Tempo in cui permane unicamente un sordo, angosciante sintomo, che non ci fa dormire la notte, ci intristisce, ci fa assomigliare a un pezzo di carne rancida, ci incanaglisce.
Tempo di Pasqua, però, in cui ci viene ricordata la potenza radicale del perdono. Specialmente la sua capacità di permeare gli spazi più opachi, le occasioni più sottilmente nefande. È la dinamica del perdono – debole, spesso sotto la soglia di visibilità; potente, talvolta capace di spezzare le ossa della nostra dimenticanza – a dare un senso a ciò che sta capitando. Perché, nonostante tutto, a dispetto del peggio che ci avviluppa, la trama buona del perdono regge e si espande. Accettarla, frantuma in noi ogni risentimento, ogni ricordo di tradimento. Condividerla, ci rende capaci di percepire e valorizzare il buono in ognuno, di esaltare il residuo di verità presente in chiunque, di giudicare tutte le situazioni con senso critico e atteggiamento positivo. Di reggere ogni relazione – tra singoli, gruppi, generi, generazioni; con lo Stato, le cose, la natura – affrancati dall’astrazione, dall’ideologia, dalla sudditanza, dal bieco tornaconto, vivendola unicamente a partire dalla categoria biblica (concreta, pragmatica) dell’alleanza. Uno stare insieme libero, responsabile e amorevole.
È quel che sta accadendo in questi giorni. Così, malgrado tutto, il tempo della Pasqua vince il tempo della morte. In alcuni cuori, nei rapporti teneri e sinceri che si schiudono in certe compagnie. In tutti gli ambiti. Familiari, amicali, lavorativi, istituzionali. Di lotta e di governo.
Speriamo di rivedere presto casa, di essere finalmente accolti in un porto ospitale. Allora, perché ciò possa veramente avvenire, lasciamoci plasmare dalla navigazione. Lasciamo che il vento ci faccia, non più buoni, intelligenti, coerenti, ma più pronti al perdono e a essere perdonati.
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