“Non cercare di capire, devi solo sentire” dice una scienziata all’inizio di Tenet, il nuovo film di Christopher Nolan che è diventato, suo malgrado, il film simbolo della ripartenza dei cinema dopo l’emergenza Covid-19. Una frase che risponde alle perplessità che a volte il cinema di Nolan lascia sulla sua complicazione e sulla necessità di lunghe spiegazioni e che pone un interrogativo: e se il cinema del regista fosse più istintivo di quello che si crede e che appare?
Se anche così fosse, non è questo il film più comodo per capirlo: la storia vede protagonista un agente segreto che, dopo una missione finita male, è contattato per risolvere un intrigo di misure inimmaginabili, ovvero qualcuno ha trovato il modo di invertire il flusso del tempo e dal futuro sono pronti a fare la guerra al presente e al passato. Un condensato di spionaggio – che Nolan sia un fan di James Bond si sa e si vede da tempo – e fantascienza, di rompicapo e giocattolone spettacolare che cerca di far vedere cose mai viste mentre racconta cose in parte già dette.
Da una parte ci sono le strutture dei film di 007, le missioni in posti esotici, le scenografie lussuose, le corse contro il tempo, i cattivi folli e oltre ogni riga, dall’altra ci sono gli echi di Terminator, Ritorno al futuro e di tutta una letteratura anche cinematografica che sui paradossi temporali germoglia: mettere tutto insieme significa per Nolan – autore anche del copione – unire due dei fili principali del suo cinema per farne un nodo sempre più fitto e complicato, arrivando a mostrare però qualcosa di mai tentato prima, ovvero il punto in cui il passato e il futuro possono cambiare direzione, il fluire inverso del tempo.
Un trucco cinematograficamente “semplice” su cui Nolan costruisce il senso di meraviglia del film, lo svelamento progressivo del meccanismo, il dispositivo spettacolare: da qui il titolo, una delle cinque parole che compongono il quadrato di Sator, una sorta di quadrato magico che si legge uguale a prescindere dalla direzione, una composizione palindroma (le altre quattro parole, Sator, Opera, Arepo e Rotas compaiono nel film in vario modo) per un film che mette in mostra la palindromia impossibile del tempo come Memento ne illustrava la reversibilità.
Ma se, come faceva notare Gervasini in una recensione di Inception (2010), in Nolan a volte le grandi idee restano filosofia e i personaggi finiscono ingabbiati nei meccanismi, in Tenet la scelta pare voluta e consapevole, il regista si affida ad archetipi e funzioni narrative per realizzare un film di puro intrattenimento, in cui il gioco con il tempo e con le possibilità futuribili della scienza serve per creare azione, tensione, sorpresa, per colpire l’occhio e l’orecchio dello spettatore con le immagini di Hoyte Van Hoytema e gli effetti visivi di Andrew Jackson, Andrew Lockley e Scott R. Fisher, l’ardito montaggio, classico ma straniante, di Jennifer Lame, le musiche di Ludwig Göransson e i suoni di Willie Burton e Joseph Fraioli per una concezione del cinema altamente professionale e artigianale nella fattura, ma in grado di inglobare il meglio della tecnologia.
Ci si può perdere dentro il racconto, ci si può disinteressare della vicenda così narrata e stavolta i momenti “emotivi” riescono al regista decisamente meno bene (per esempio, il personaggi di Elizabeth Debicki e il suo rapporto con il cattivissimo Kenenth Branagh irrefrenabile gigione). Se si fanno i conti con questi difetti e si accetta il limite insito nel gioco, Tenet è un film ammirevole per fattura, resa visiva, spettacolo filmico; altrimenti si può pensare – non a torto – che il cinema di Nolan sia ormai sull’orlo di un impasse, da cui speriamo possa sfuggire riavvolgendo il nastro del tempo.