La recente edizione italiana dell’antologia curata da Mona West e da Robert E. Shore-Goss, tradotta da Giuliano Montaldi per i tipi delle Edizioni Dehoniane di Bologna, raccoglie testi di studiosi, rabbini e pastori che attingono alle “teorie femministe, queer, decostruzioniste, decoloniali e utopiche” al fine di offrire al mondo arcobaleno una lettura radicalmente inedita della Sacra Scrittura. “La Bibbia – affermano nell’introduzione la teologa Selene Zorzi e il professore di teologia morale e teologia spirituale Martin M. Lintner – è tutt’altro che un manuale di codificazioni rigide, ma il luogo in cui ritrovare la chiave della complessità e della porosità delle vite”.
Il successo della lettura queer in ogni spazio culturale possibile, diventato un vero e proprio “valore bandiera” nelle università e in tutte le sedi istituzionali, costituisce un’evidenza tale che non ha bisogno affatto di essere dimostrata. Più in generale il tema del “gender”, inteso come definizione di una sessualità autonoma dal sesso biologico, dopo avere conquistato da tempo le università americane, prosegue la sua lunga marcia nelle università italiane.
Non si può qui negare la responsabilità di una specifica tradizione della sociologia dei processi culturali, particolarmente in auge negli anni Settanta del secolo scorso. Per questa tradizione sociologica qualsiasi elemento della natura è confiscato a vantaggio della cultura e poiché quest’ultima dipende dalle condizioni storico-sociali e, ancora di più, dai rapporti asimmetrici che si sviluppano dentro ogni società storica, ogni concezione dell’uomo e della donna non può esservi che subordinata. Se la cultura, ogni cultura, prevale sulla natura, uomo e donna smettono di essere delle evidenze biologiche per rivelarsi come categorie di un pensiero binario che non è altro che una costruzione, passibile di essere rivisitata e modificata.
Si tratta qui di una grossolana semplificazione che restringe il lavorio della cultura sulla natura al semplice consolidamento dei rapporti di forza esistenti tra generi, fasce d’età, gruppi etnici, classi sociali. In realtà l’opera della cultura, al di là delle sue determinazioni storico-geografiche, va molto più lontano di simili applicazioni, in quanto le evidenze biologiche pongono costantemente la necessità inderogabile della ricerca di un principio ordinatore di senso. La ricerca di quest’ultimo viene prima di qualsiasi rapporto di forza: si tratta di un’esigenza dell’umano, prima ancora che del sociale.
Questo principio ordinatore deve essere capace, in ogni cultura, di custodire e salvaguardare il miracolo della vita, generando la prole, curandone lo sviluppo fisico e custodendone lo spirito partendo da convinzioni certe, situate dentro valori primi indiscutibili. Ma questo principio deve anche dare una ragione del dramma della morte, andando così alla ricerca di un universo immateriale dove la caducità e la precarietà della vita umana trovano un principio di senso in grado di darne ragione.
È da una tale esigenza fondamentale che si sono edificate nel passato le strutture giuridico-morali e si sono definiti i ruoli educativi e riproduttivi, così come si sono strutturati i sistemi espressivi, linguistici e simbolici. Un tale lavorio della cultura non si è realizzato destrutturando le evidenze dell’esperienza del mondo fisico-naturale, ma operando all’interno di queste, osservate e percepite come un’evidenza naturale. Questo e solamente questo spiega le cattedrali di pensiero, l’estesa articolazione dei rituali, la pluralità delle norme morali e delle espressioni simboliche che si sono manifestate. Ad ogni passaggio storico si è trattato di proteggere la vita e dare un senso alla morte.
Nel fare questo la cultura non ha mancato di dare luogo a delle modalità espressive e simboliche – che sono le culture storicamente situate – così come non ha mancato di produrre delle costruzioni sociali che si sono sviluppate nei contesti concreti dei singoli periodi storico-sociali, riparametrando costumi e comportamenti, ma anche producendo forme di governo e configurazioni dell’universo trascendente.
Ad ogni passaggio si è tuttavia mirato a custodire l’evidenza dell’esperienza, salvaguardando la ragionevolezza dell’intuizione iniziale di custodire la vita e darsi le ragioni della morte. Non sono mancate crisi ed errori, conflitti e scontri. Ma la storia del mondo non si riassume affatto nelle lotte che hanno opposto gli uni agli altri, rivelando la caducità dei modelli culturali e dei sistemi politici di volta in volta adottati. La storia della società è piuttosto quella delle soluzioni che, ad ogni passaggio, hanno finito con l’imporsi ed essere adottate. Per questo si può parlare di un progresso morale conseguente ad un primato della ragionevolezza.
Per questa strada la famiglia monogamica si è imposta secondo un processo di selezione razionale, dove tutte le altre forme hanno manifestato la loro precarietà. Pensare una qualsiasi altra forma è certamente possibile, ma non è affatto garantito che dia gli stessi risultati. Fare di ogni cultura una semplice “costruzione”, ignorando la posta in gioco e il confronto con le evidenze della natura non dà vita a nessuna teoria ma, al massimo, produce un’opinione. È un po’ mesto doversi richiamare alla lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi, ma un simile rinvio è qui inevitabile: “Tutto è lecito! Ma non tutto è utile! Tutto è lecito! Ma non tutto edifica” (Corinzi, 10,23).
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