A più di un anno dall’inizio della pandemia la medicina territoriale fa un bilancio sul suo ruolo e sui protocolli terapeutici per le cure a casa. Il caso del Piemonte, che aggiorna il protocollo per le cure a domicilio scatenando polemiche circa la raccomandazione, ad esempio, dell’idrossiclorochina, richiama l’attenzione sulla necessità di ripensare, a più di un anno dall’inizio della pandemia, qual è stata l’evoluzione del ruolo dei medici di base nell’arginare l’ospedalizzazione e nel prevenire la saturazione delle terapie intensive. E spinge a riflettere sulle conoscenze acquisite in merito a quelle che sono le terapie più efficaci da adottare nei diversi stadi dell’evoluzione della patologia (e, in caso di dubbio, anche in attesa dell’esito del tampone) per le cure a casa.



In questa intervista abbiamo discusso l’argomento con Alberto Oliveti, presidente Enpam (Ente nazionale di Previdenza ed Assistenza Medici). Su tutte, la lezione più valida sembra essere la più antica: basti pensare a Carlo Urbani, che nel 2003 indicò quali sono le prime tre azioni da mettere in campo di fronte a un virus sconosciuto. E proprio su quelle tre azioni, sottolinea Oliveti, non siamo forse stati abbastanza tempestivi né sufficientemente rigorosi.



Cosa pensa della discussione nata intorno all’aggiornamento del protocollo piemontese per le cure a domicilio dei pazienti Covid? L’idrossiclorochina, come ha detto Roberto Burioni, non è efficace?

Condivido quello che dice Burioni, non c’è prova evidente dell’efficacia della clorochina, anche se devo dire che è stata usata da parecchi medici. Diversi amici medici affetti da Covid durante la prima ondata, prendendola hanno dichiarato di avere l’impressione personale di un notevole miglioramento della situazione, ma parlo di esperienze personali. C’è ancora chi la prescrive nei protocolli.



L’antinfiammatorio al posto dell’antipiretico è invece quanto consigliato da Remuzzi?

Il dott. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, non aveva parlato di idrossiclorochina, che è il punto intorno al quale è nata la polemica. Remuzzi consigliava invece di utilizzare un antinfiammatorio al posto della Tachipirina: o l’Aspirina, o la Nimesulide, che sarebbe l’Aulin, o il Celecoxib.

Condivisibile?

La ratio è questa: l’antipiretico, cioè il paracetamolo, la Tachipirina per intenderci, abbassa la febbre. La febbre però di per sé è solo un fenomeno collaterale, un epifenomeno dell’infezione virale. Combattere la febbre serve a poco se la febbre è sopportabile, di per sé non è un’azione preventiva. Chiaramente se è molto alta va abbassata perché fa male alla persona, ma è anche vero che una febbre al di sotto dei 38-38,5° rende l’ambiente inospitale per il virus. Se è una febbre moderata anche io non do l’indicazione di prendere la Tachipirina.

L’antinfiammatorio invece?

Diversa è la questione dell’antinfiammatorio, specie i cosiddetti COX 2, il Celecoxib, l’Aspirina e i farmaci antiinfiammatori non steroidei, come Nimesulide, qualcuno consiglia anche Ketoprofene (l’Oki) e Ibrufoene (es. Brufen). Questi sembra possano agire sull’infiammazione, l’elemento che in soggetti più predisposti favorisce la tempesta delle citochine che è all’origine della polmonite interstiziale bilaterale.

L’approccio dopo la prima settimana cosa prevede?

L’approccio, nella seconda settimana della patologia, è utilizzare anticoagulanti, eparina a basso peso molecolare, e il cortisone, perché ha un’azione antinfiammatoria importante, insieme a farmaci che hanno la funzione di inibire la replicazione virale, come il Remdesivir: è l’antivirale che viene usato, anche se non ci sono prove della sua efficacia.

Nelle prime settimane invece il cortisone è sconsigliato?

Nelle prime settimane si sconsiglia il cortisone, si può consigliare se ci sono dei sintomi respiratori che si accentuano e che vengono rilevati col saturimetro. Il cortisone è un ormone naturale che produciamo dal surrene e che ha una duplice funzione: una funzione antinfiammatoria, pari se non più forte degli antifiammatori di cui parlavo, ma anche un’azione anti-immunitaria, che riduce l’attività delle cellule immunitarie. Per questo è sconsigliato nelle prime settimane, ma se c’è una reazione eccessiva il cortisone può “sedare” l’elemento linfocitario.

Il criterio generale qual è?

Remuzzi dice: cerchiamo di ridurre l’infiammazione sin dall’inizio, sin dal momento in cui c’è una banale forma d’interessamento delle prime vie aeree, anche se c’è da dire che le forme che possono evolvere in modo grave danno subito segnali d’interessamento dei nervi cranici – toccando l’olfatto, il gusto, in qualche caso anche l’udito e i nervi oculomotori. Il virus entra dalle vie aeree ma ha una particolare tropia verso i nervi cranici, il cui interessamento può essere per questo un segnale di potenziale gravità della patologia.

Quali farmaci sono stati accantonati dall’anno scorso?

Hanno fallito appunto l’idrossiclorochina, della cui efficacia non c’è evidenza, e un farmaco che si pensava potesse bloccare la tempesta citochinica, il tocilizumab. Si tratta di farmaci usati con tante aspettative nella prima ondata ma che non hanno mostrato evidenze di efficacia sufficienti.

La vitamina D è davvero efficace?

La vitamina D a livello del tutto teorico dovrebbe potenziare le risposte immunitarie, che entrano in causa soprattutto nella seconda settimana, quando c’è l’eventuale attivazione del sistema immunitario. Francamente però non ci sono grandi evidenze scientifiche per la vitamina D e nemmeno per la lattoferrina, che dicono agisca sul ferro e anche sulla modulazione della risposta immunitaria.

Cos’altro abbiamo imparato sul campo rispetto all’andamento della patologia?

Sembrerebbe che questa patologia abbia un andamento bifasico. C’è una fase di infiammazione delle prime vie aree, talvolta – come spiegavo – con interessamento dei nervi cranici legati a olfatto, gusto e a volte anche a vista e udito, o addirittura con disturbi intestinali. E poi c’è una seconda fase d’infiammazione ed eccessiva risposta immunitaria: come se il cane che teniamo in giardino per difenderci dagli estranei non riconoscesse più il padrone e lo aggredisse. Remuzzi ritiene in proposito che lo scoppio della reazione infiammatoria possa essere attenuato dall’utilizzo precoce degli antinfiammatori.

Siamo riusciti nel tempo a limitare l’ospedalizzazione grazie alla medicina territoriale, come si auspicava?

Una norma buona era venuta fuori dopo il 2003 e fu indicata proprio da una vittima della Sars, Carlo Urbani.

Quale?

Quando arriva un’infezione da un agente nuovo bisogna fare subito tre cose: isolare gli ammalati, proteggere gli operatori e chiudere tutto, perché il virus cammina sulle gambe dell’uomo. Queste tre cose non sono state fatte nemmeno nel 2020 e di certo il ruolo del medico di famiglia non ne ha beneficiato. La metà dei morti medici sono stati medici di famiglia, questo mostra come abbiano tentato di svolgere la loro funzione e al contempo come non siano stati protetti: di più non potevano fare. Sono andati a combattere quasi a mani nude e la visita a studio o a casa è diventata non solo modalità di contagio ma anche di diffusione della malattia.

I medici di medicina generale saranno determinanti anche per il vaccino?

Al momento sono più i medici disponibili a vaccinare che le “cartucce” con cui vaccinare.

C’è qualche occasione che non abbiamo saputo cogliere?

Un’occasione che in Italia non è stata colta tempestivamente è quella degli anticorpi monoclonali, sarebbero stati utili per tamponare nell’attesa del vaccino. Si tratta di anticorpi già “pronti” che nel sangue durano un paio di mesi, andrebbero usati in una fase iniziale. Non servono più quando ormai “il cane è impazzito” e la reazione immunitaria si è scatenata. Se ne avessimo a sufficienza (e se non avessero costi particolari) dovremmo darli a chiunque ha un test molecolare positivo.

(Emanuela Giacca)

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