Le parole d’ordine sono due e sono terribilmente tecniche: quant e momentum factor o momo. Ciò che le lega dallo scorso fine settimana è ora una terza parola: terremoto. Ciò che significa questo legame è presto detto: la Fed non ha alternative, deve agire. Subito. E non perché lo ha chiesto, per l’ennesima volta, Donald Trump con un tweet colorito.
Per capirci, i quant funds (quant, in gergo) sono fondi che investono basandosi essenzialmente su algoritmi e programmi automatizzati. Il momentum factor (momentum o momo) è, in parole povere, una relativamente vecchia strategia di investimento basata su una regola fissa e che risale all’inizio degli anni Novanta, concentrata da prima sui mercati equities statunitensi. In soldoni, si basa sulla convinzione di poter generare enormi eccessi di return, scommettendo su titoli americani che hanno ben performato nei precedenti 3-12 mesi e, al contrario, vendendo equities che hanno offerto performance negative nel medesimo arco temporale.
Di suo, il momentum non è quindi un fenomeno di lungo termine ma, d’altro canto, non ci si può nemmeno basare su performance troppo recenti, visto che un trend necessita di un minimo di tempo per premere sul gas e prendere ritmo. Occorre, per dirla in gergo sportivo, che i titoli spezzino il fiato. E quell’arco temporale, da alcuni scadenzato sul range 1-3-6-12 mesi di valutazione prezzi, pare perfetto come sintesi di trend.
Bene, quant e momentum vanno a braccetto. E, solitamente, vanno in out-performance sul resto del mercato. Ovvero, fanno meglio degli indici benchmark. Qualcosa, però, il 9 settembre si è rotto, come mostrano questi grafici.
E il terremoto è proseguito anche il giorno seguente, tanto che non solo il momentum factor è precipitato in rosso da inizio anno, dopo essere stato a +13% solo la scorsa settimana, ma quello in atto rappresenta il peggior collasso dalla crisi dot.com e dal famigerato crash dei quant del 2008-2009. Il tutto, a partire da alcuni movimenti anomali registrati il 6 settembre, nell’ultima seduta di contrattazioni della scorsa settimana fra large e small cap, ovvero titoli relativi ad aziende con piccole e grandi capitalizzazioni.
La divergenza del gap di performance ha toccato massimi estremi, come conferma il capo del quant team di JP Morgan, Marko Kolanovic: “Quanto accaduto ha solo due precedenti nella storia, il secondo dei quali nel febbraio 1999, in piena bolla tecnologica”. Insomma, quella che in gergo viene chiamata una deviazione di mercato, ma di quelle epocali, per quanto silenziosissima.
Ma cosa è accaduto, in parole povere, di così spaventoso e allarmante per chi opera sui mercati e così tecnico da non meritare nemmeno una riga sui giornali o la menzione nei telegiornali? Ad esempio, il Russell 2000 (l’indice delle small caps) ha chiuso a +1,3% il 9 settembre, tanto che il movimento di giornata dell’indice ha fatto ridurre il gap da inizio anno del 20%. I titoli finanziari large caps, quelli a grande capitalizzazione, vere bestie sacrificali dello S&P 500 per tutto l’anno in corso, hanno segnato un +1,5%, restringendo il gap da gennaio addirittura del 44% in un solo giorno. Contemporaneamente, le momentum stocks statunitensi sono scese dell’1,7%, tagliando di netto l’out-performance settoriale rispetto all’S&P 500 da 357 a 186 punti base, un -48% di gap. In un giorno soltanto, quasi dimezzato.
Insomma, il mondo al contrario. Ma, soprattutto, l’onda che va in direzione opposta alle scommesse miliardarie degli algoritmi dei quant funds. Scommesse enormi. Capaci da sole, se quel trend non si inverte ma diventa sistemico, di creare danni altrettanto enormi.
Anche perché, come mostra la schermata qui sopra, ciò che fino alla fine degli anni Novanta si pensava una strategia applicabile solo a Wall Street, è invece divenuta diffusa ovunque. E il contagio sul momentum factor il 10 settembre si è presentato in tutto il mondo, prima in Asia e poi in Europa.
E cosa ha innescato questo cambio di trend? Paradossalmente, alcune buone notizie macro. Ad esempio, il Bund che si è allontanato dai minimi di rendimento, così come il Treasury decennale che ha prezzato l’1,65% contro l’1.50% di inizio settembre. O le rinnovate speranze di un accordo Usa-Cina che, almeno per qualche giorno, paiono aver allontanato la prospettiva a breve di una recessione. Di fatto, good news are bad news. Perché allontanano la certezza di Banche centrali che tornino a forza quattro. Insomma, qualcosa di grosso è accaduto sotto la superficie visibile del mercato, il blocco di ghiaccio di un grosso iceberg si è staccato e ha cominciato ad allontanarsi sotto il pelo dell’acqua.
Questa la conclusione di Charlie McElligott di Nomura: “Nessuno di chi guarda non dico la tv generalista, ma nemmeno i canali finanziari ha avuto la minima percezione della calamità che è accaduta e che continua a propagarsi sotto la superficie dei mercati. È quasi ridicolo come fatto, stante la società da comunicazione e social ubiqui in cui viviamo. Non si vedeva una magnitudo e una rapidità di accelerazione simile dal Quant Quake dell’agosto 2007”.
Nessuno di noi se ne è accorto, non una parola sui media. Non un plissé degno di nota sugli indici principali, non un sobbalzo più violento del solito da parte degli spread che meritasse una menzione. Non un tweet di Donald Trump. Eppure è accaduto. Quei rendimenti di Treasuries e Bund in risalita hanno guadagnato trazione proprio dalle vendite forzate di bond da parte degli hedge funds, innescate dalla catena di controparte del momentum factor che si schiantava al suolo. Iperuranio, di fatto.
Ma qualcuno comincia a chiedersi se sia l’avviso tumultuoso dell’arrivo del classico inflation point o soltanto un proxy legato ai tassi di interesse, in vista della Fed. Come in un romanzo di Isaac Asimov, però, le macchine perfette del trading ad alta frequenza e degli algoritmi sono impazzite e le loro strategie sono andate in pezzi nell’arco di 48 ore.
La domanda è: quanto ci metterà il contagio a colpire anche gli indici maggiori, il mercato in senso più ampio? Quasi certamente, la Fed metterà una toppa prima. Ma l’equilibrio finanziario su cui si basa il mondo, ormai è questo. Instabilità totale, degna di un trapezista.