“In seguito ai movimenti delle placche, o zolle, in cui è suddivisa la crosta terrestre, si sviluppano forti spinte, che inducono un accumulo di sforzi e di energia in profondità. Le rocce soggette a piccoli sforzi si deformano in modo elastico. Quando gli sforzi in profondità superano il limite di resistenza della roccia, si verifica un rapido scorrimento delle parti di roccia a contatto lungo superfici di rottura (faglie) e si libera l’energia accumulata sotto forma di onde elastiche (onde sismiche): è il terremoto”.
Così è definito il terremoto sul sito ufficiale della Protezione civile. Venerdì scorso l’abbiamo visto in Marocco, ma non è stato né il primo né sarà l’ultimo. Gli uomini sanno bene di questa improvvisa possibilità, di questa misteriosa energia che cova nel cuore della terra mentre sopra, ignara, si svolge la vita di sempre. Non guarda in faccia a nessuno, non si ferma davanti alle famiglie nelle loro case, ai malati nei loro letti, ai bambini che giocano per strada. Esce allo scoperto come in un enorme, sproporzionato e drammatico nascondino. Ha la forza di distruggere tutto, scrollandosi di dosso palazzi e strade. Dunque siamo sotto attacco? La vita dovrebbe razionalmente essere definita una fregatura? L’ultima parola è la conta dei danni e delle vittime?
C’è un brano del Nuovo Testamento che lascia sempre senza fiato. È ciò che scrive san Paolo ai Romani: “Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”. Viviamo nel tempo dell’attesa e tutto, attorno a noi e in noi, ce lo ricorda. Persino la creazione non è in pace.
Quell’inquietudine che abita il nostro cuore sembra essere la stessa che agita le rocce e sprigiona l’energia. Anche noi, infatti, abbiamo i nostri “terremoti”. Quanti fatti imprevisti, inimmaginabili, sconvolgono la nostra esistenza e, spesso, in modo definitivo! All’inizio, davanti ai nostri occhi, hanno quasi sempre la forma di un ostacolo. Solo il tempo ci fa capire cosa resta ostacolo e cosa diventa promessa, esattamente come le doglie del parto per una donna.
Le rocce, le faglie, i vulcani, le piante… è come se gridassero: “Libertà! Libertà!”. Gridano a loro modo, senza sapere a chi, senza poter essere figli, senza poter sbagliare, senza poter essere perdonati. L’uomo, invece, attende nel modo inaugurato dal “Tutto è compiuto” di Cristo in croce: già e non ancora. È un’attesa nuova, certa di un compimento che dominerà la storia. Per questo nemmeno il terremoto può farci soccombere veramente. In fondo sappiamo che ci attende un’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo quando, finalmente, nessuna energia sarà più distruttiva.
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