Luna El Maataoui è una studentessa marocchina (26 anni) dell’Università Bicocca di Milano. Collabora con Banco Building e recentemente si è occupata di alcuni aspetti della mostra “Azer. L’impronta di Dio” promossa da Banco Building – il banco delle cose al Meeting di Rimini, mostra nella quale si documenta l’avventura umana e cristiana di cinque monache che, partite da Valserena (Pisa) stanno costruendo ex novo un monastero in Siria. Il caso ha voluto che Luna sia tornata, proprio il giorno prima del terremoto, da una visita al suo Paese. Ma il suo pensiero, naturalmente, non può non andare a quello che sta succedendo in patria, alla reazione della sua gente a un disastro di proporzioni immani come quello che ha colpito la regione di Marrakech.



Luna, come vedi la situazione post terremoto del tuo Paese?

La situazione in Marocco è molto difficile. Bisogna distinguere tra le città e i villaggi di montagna. Nelle prime i problemi verranno risolti presto, nei secondi la situazione è più complessa. Infatti sulle montagne dell’Atlante sono sparsi (a varie altitudini) numerosi villaggi. Villaggi antichissimi che vivono di un’agricoltura basata su apicoltura, vendita di ovini per la Pasqua musulmana (Eid al-Adha, la prossima verso fine giugno) vendita dei prodotti dell’orto famigliare con mezzi informali (bancarelle a bordo strada, carretti in mezzo alle vie). Le case sono in buona parte realizzate in terra battuta, un mix di fango argilloso, paglia e sassi. Durante l’anno, grazie ai muri spessi e alle proprietà della terra, riescono a termoregolarsi, ma nulla possono contro un terremoto di magnitudo 7.



Non ci sono case come le nostre?

Le abitazioni di recente costruzione che utilizzano mattoni e cemento sono poche e comunque nessuna è antisismica. Le strade che conducono a questi villaggi hanno la stessa viabilità delle stradine che in Italia conducono ai rifugi di montagna, tortuose e strette. Molti di questi centri solo da pochi anni hanno accesso all’energia elettrica grazie ai pannelli solari che spuntano su qualche tetto di paglia e – ancora meno – hanno campo telefonico. In uno scenario di questo tipo il quadro che ci possiamo immaginare è chiaro.

Cosa possiamo fare noi, ora dall’Italia, cattolici o musulmani?



Il popolo marocchino ha una caratteristica: c’è una forte solidarietà sociale che ha origini storiche (l’occupazione francese, il terremoto del 1960 di Agadir) e un forte senso religioso. Il dramma, la morte e la fatica non fanno distinzioni di fede e non ne ho mai volute fare neanche io. Il governo ci ha fatto sapere che è operativo nelle zone terremotate, sono stati stanziati fondi e sono impiegati soccorritori specializzati in ricerca e recupero, nonché le forze dell’esercito. I marocchini da giorni sono in fila per donare sangue, i volontari stanno raccogliendo viveri e vestiti che vengono portati alle popolazioni che ne necessitano. Sono tanti i volontari marocchini – e non – che stanno aiutando in questi giorni complessi.

Cosa si deve temere di più?

L’inverno è alle porte e in Marocco il freddo è pungente soprattutto in montagna. Con la mia famiglia e l’aiuto di amici stiamo raccogliendo vestiti e coperte da mandare in Marocco: la prima tranche l’abbiamo inviata e verrà distribuita nei dintorni di Demnate, sull’Atlante. I prossimi mesi saranno difficili e ci vorrà tempo per ridare una casa a queste persone. Il Re ha aperto un fondo in cui si può donare anche dall’estero tuttavia, io personalmente, consiglio di chiedere ai vostri amici marocchini se sanno di qualche situazione di bisogno e operare insieme a loro, così che possa diventare anche occasione di rapporto.

Qual è il tuo pensiero generale sulla cosa?

La mattina del terremoto ho chiamato mia nonna che cercavo di contattare da tutta la notte e lei mi ha detto, tradotto letteralmente: “Tutto ciò che viene da Dio è il benvenuto, dobbiamo attendere obbedienti la Sua opera e pregare per tutti, Dio è Grande e Misericordioso”. Questo mi ha colpito perché esprime appieno il sentimento del mio popolo: lavorare, ricostruire senza mai dimenticare di pregare. È “l’ora et labora” visto al Meeting nella mostra di Azer.

In molte zone del Marocco, però, c’è molto da ricostruire.

Si è vero. Ciò che in questi giorni riecheggia tra le stradine delle città marocchine ci ricorda che non dobbiamo ricostruire solo una casa o due, o duecento, ma ricostruire il nostro Paese. Siamo responsabili per ciò che Dio ci ha donato, siamo amministratori della creazione. Questo, se vogliamo, supera i confini del Marocco e il tempo del dramma. Chiede responsabilità per tutto ciò che ci è dato. Ogni musulmano, prima di ogni azione anche la più semplice, dice “Bi-ismi ‘llah” (nel nome di Dio): mio padre ci teneva tantissimo e solo recentemente sto comprendendo la responsabilità che queste parole portano con loro.

Che riflessioni ha suscitato in te questa vicenda?

In questi giorni, mi sono chiesta e richiesta come dare una mano, come potessi aiutare dall’Italia quelle persone di cui conosco nome e cognome, che ho incontrato e con cui ho mangiato, fino a pochi giorni fa. Mi sono interrogata su cosa sia la carità. Ho capito che c’è un rischio, che corro io in primis. Che la carità (o più laicamente beneficenza) può diventare solo il prezzo da pagare per una coscienza pulita. La carità, sto scoprendo, invece è un giudizio: ciò che ho, l’ho ricevuto. Non è di mia proprietà. Se l’ho ricevuto è perché possa contribuire all’opera di Dio e per questo posso dare via tutto, perché non è mio. Mia nonna mi ha sempre detto che, se Dio ci dà l’abbondanza, non è per riempirci la pancia ma per prenderci cura della Sua creazione in nome e per conto di Dio. Infatti carità fra di noi si dice “Fi Sebillah”: per conto di Dio.

Quindi tu ora non ti senti in colpa per non essere là?

Io, insieme alla mia amica a cui mostravo la mia terra, siamo passate proprio da quei villaggi, abbiamo camminato per quelle strade e abbiamo parlato con gli abitanti. Molti marocchini in Italia con cui ho parlato si sentono in colpa per non essere lì a dare una mano. Io potrei stare qui a chiedermi perché non sia là o accettare che Dio mi abbia dato una grazia e usarla per la Sua opera. Gli amici che in queste ore mi stanno aiutando a portare giù vestiti e coperte sono per me l’evidenza che ha senso che io sia qui.

(Silvio Pasero)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI