Negli anni 70 i disoccupati organizzati a Napoli erano un movimento antagonista. Nate durante l’epidemia di colera, le “liste di lotta” per il lavoro divennero parte rilevante di quel vasto movimento politico che ebbe origine dal Sessantotto. Ma dopo il terremoto dell’80, quindi in pochissimi anni, esse si trasformarono in uno strumento di politiche clientelari, in un enorme serbatoio di voti da scambiare, nel simbolo di un’estesa e massiccia pratica assistenzialista, fino a pesare sulla storia della città come una maledizione.



La storia ebbe inizio nei giorni del colera del 1973. L’epidemia si sviluppò rapidamente in città e neanche allora fu semplice individuare l’origine e le cause della trasmissione del virus. I principali imputati furono le fogne (inesistenti) e quello che oggi chiamiamo il “cibo di strada”. Dalle bevande fresche alle granite di limone, dal “callo di trippa” bollito e venduto a pezzi in sacchetti di carta e condito con sale e limone, fino ai frutti di mare crudi. Tutto avveniva all’epoca per strada, su bancarelle e carretti, senza fare particolare attenzione alle più elementari regole di igiene. Così quando responsabile della diffusione dell’epidemia divenne un virus nascosto nelle cozze, coltivate nel mare di Mergellina, fu impedita qualsiasi attività di pesca e di vendita.



Venne alla luce che migliaia di persone vivevano proprio di questo e che in questo modo si colpiva quello che era l’unico reddito per numerose famiglie, soprattutto dei quartieri più popolari. La gestione del piano di sostegno per questi lavoratori fu affidato all’Eca, l’Ente comunale di assistenza, un istituto fondato dal fascismo e noto in città per aver sostituito le congregazioni di carità, che distribuì a decine di migliaia di cittadini buoni in denaro e cibo.

Passato il momento acuto dell’epidemia grazie alla vaccinazione di massa dei cittadini, si capì ben presto che quelle attività, abusive e prive delle più elementari certificazioni igienico-sanitarie, non sarebbero mai più state consentite. Si creò così una sacca di disoccupati che incominciò un’azione di protesta, rivendicando la “precedenza” rispetto agli altri lavoratori in cerca di lavoro in attesa al collocamento. Per avere diritto all’iscrizione alla “lista” bastava esibire il buono ricevuto dall’Eca.



Nel 1974 la città conobbe così il primo movimento organizzato, la lista contava circa 4mila disoccupati e fu chiamata “sacca Eca”. Ogni volta che la lista veniva “svuotata”, grazie soprattutto all’immissione senza concorso nella pubblica amministrazione, essa si riempiva di nuovo. Con la compiacenza della politica cittadina, che aveva trovato un efficace escamotage per dare uno sbocco alle loro esigenze clientelari, la lista veniva ricostruita con nuovi arrivi a cui veniva richiesto di esibire il buono Eca, più o meno autentico.

In pratica si era trovato un modo concreto per aggirare le liste del collocamento. La conseguenza immediata fu che le liste di disoccupati organizzati nacquero come funghi, ciascuna rivendicando un “diritto” particolare. Su di esse concentrarono la loro attenzione i gruppi della sinistra extraparlamentare. Il loro attivismo politico aveva inizialmente preso piede nelle scuole e nelle università e aveva poi contagiato le fabbriche. Ma il terreno fertile su cui si svilupparono fu quello del disagio sociale rappresentato dai senzalavoro e dai senzatetto.

Furono anni caldi per il movimento dei disoccupati organizzati napoletano, che crebbe rapidamente di numero e di peso politico. La città ne era completamente condizionata. Ogni giorno era attraversata da più cortei, che spesso finivano con incidenti e atti di violenza. Fabrizia Ramondino, nel suo primo lavoro intitolato Ci dicevano analfabeti: il movimento dei disoccupati napoletani degli anni 70, scrisse: “questo libro parla non solo del movimento e della lotta dei disoccupati organizzati ma anche delle condizioni di vita generali del proletariato precario napoletano”. I leader del movimento divennero famosi e acclamati. Tra di essi vale la pena ricordare Mimmo Pinto, il leader storico dell’ala più di sinistra e più politicizzata del movimento, che fu eletto parlamentare nelle liste di Democrazia Proletaria nel 1976, per poi essere rieletto nel 1979 grazie al Partito Radicale di Marco Pannella.

La risposta delle istituzioni tardò ad arrivare. Solo in pieno clima di unità nazionale il parlamento approvò nel 1978 la legge 285, che prevedeva risorse e soluzioni innovative a sostegno dell’occupazione giovanile. Si procedette così a riformare il vecchio collocamento e si cercò di ripristinare trasparenza e criteri oggettivi nella formazione delle liste. Lo stesso sindacato – colto di sorpresa dalla nascita del movimento – decise di dare vita al suo interno ad un proprio coordinamento di giovani disoccupati.

Il terremoto piombò su Napoli e la Campania come un uragano, portando via ogni cosa. L’arrivo di molti soldi e la nascita dei poteri commissariali cambiò rapidamente la natura e le attese del movimento dei disoccupati. Il terremoto divenne l’alibi per far saltare quel poco di buono che era stato fatto (la riforma del collocamento) e la gestione straordinaria del dopo-sisma preferì gestire i disoccupati come una nuova grande opportunità di assistenzialismo. Nonostante lo sviluppo del mercato delle costruzioni, che avrebbe dovuto offrire nuova occupazione, si preferì perseguire la strada della creazione di un mercato del lavoro parallelo fatto di “lavori socialmente utili”, di finti piani “di riqualificazione professionale”, dello sviluppo di progetti a sfondo sociale come quelli destinati agli ex detenuti.

Dopo il terremoto la politica cittadina venne totalmente condizionata dai comportamenti violenti del movimento. Era in qualche modo tollerata dalle istituzioni una forma costante di prevaricazione. Le manifestazioni di piazza si concludevano con l’occupazione delle sedi dei partiti, delle principali istituzioni cittadine, della camera del lavoro, dei giornali, Rai compresa. Si arrivò ad occupare la stessa prefettura e a minacciare il prefetto con una pistola. Complice un compiacente comportamento delle forze dell’ordine, motivato con l’esigenza di evitare che le cose degenerassero, ci si limitava ad organizzare gli incontri, a prelevare i rappresentati dei partiti e delle istituzioni e condurli con la forza ad ascoltare le richieste del movimento. L’obiettivo era quello di far assumere impegni collegiali per ottenere in parlamento il rifinanziamento dei progetti.

Nasceva così il consociativismo. Questa è la parola chiave per capire quegli anni. Consociativismo vuol dire che nulla poteva essere fatto senza il consenso di tutti, forze di governo e di opposizione, rappresentanti delle imprese e sindacati, ma anche movimenti come le liste dei disoccupati. Si andò a formare in quegli anni una sorta di “costituzione materiale” con cui fu stracciata ogni altra regola del funzionamento democratico: non vi era più chi svolgeva l’elementare ruolo del controllo, tutti avevano voce in capitolo sulle decisioni e in ultima analisi su come spendere i soldi. Il consociativismo è l’anticamera della degenerazione, conduce a forme di abuso, favorisce la corruzione: è questo il quadro d’insieme che poi condusse alla “tangentopoli napoletana”.

La politica cittadina viveva questa doppia condizione: da un lato era al centro del più grande progetto di investimenti che mai prima si era potuto mettere in atto in una regione del Sud, dall’altro viveva sotto la minaccia di due poteri, la camorra e i disoccupati, che intendevano partecipare al “banchetto”.

Due furono le vicende che segnarono drammaticamente quegli anni. La prima riguardò le infiltrazioni nel movimento di esponenti delle organizzazioni criminali, la seconda il pesante condizionamento del voto clientelare. A pagare le conseguenze maggiori fu la sinistra, che perse credibilità e profilo morale. La vicenda dello scandalo delle cooperative degli ex detenuti colpì duramente il Pci.

La tragedia arrivò la mattina del 26 settembre 1986 quando Mimmo Maresca, uno stimato dirigente della Lega delle Cooperative, salì sul ponte della stazione della Circumvesuviana di Seiano e si buttò giù da quasi cento metri. La sinistra napoletana ne rimase sconvolta. L’indagine in corso non giustificava un tale gesto estremo, ma evidentemente il peso delle accuse aveva indebolito la voglia di resistere del giovane cooperatore. Maresca era stato il responsabile del progetto denominato “cooperative degli ex-detenuti”, che coinvolgeva circa 4.600 disoccupati napoletani con precedenti penali per un valore complessivo di 240 miliardi di lire. La legge nazionale che promuoveva il progetto aveva ben altri obiettivi. A Napoli era diventata l’ennesima occasione per distribuire sussidi, alimentare la spesa pubblica, condizionare il mercato dei voti di preferenza. E poi chi a Napoli non poteva vantare un piccolo precedente con la giustizia?

Le cooperative erano state rigidamente suddivise tra i vari partiti, un’organizzazione capillare dove però inevitabilmente si era infiltrata la camorra. Una colossale finzione, a conoscenza di tutti, e soldi distribuiti grazie ad una montagna di carte false: corsi di formazione mai svolti, lavori socialmente utili mai eseguiti, presenze raccolte solo sulla carta, creazione di fondi neri. Maresca sapeva che poteva essere arrestato da un momento all’altro, come poi effettivamente avvenne per decine di dirigenti di cooperative e per un assessore regionale.

Lo scandalo diventò ben presto un caso nazionale, molti dirigenti del Pci e della cooperazione furono rimossi, le strutture commissariate. Come tutte le tragedie aprì però una riflessione critica su come era stato possibile in pochi anni per la sinistra napoletana diventare la stampella del sistema di potere della Dc e dei suoi alleati. Gerardo Chiaromonte, intervenendo ad una lunga riunione del comitato federale del Pci durata diversi giorni, spinse i dirigenti “a dire la verità, tutta la verità”. La conclusione produsse un drastico cambiamento di rotta. Mai più rapporti con le liste di disoccupati, fu la conclusione del dibattito. Mai più alleati sottobanco con i partiti di governo.

Purtroppo la svolta arrivò troppo tardi, quando le cose erano ormai precipitate. La sinistra napoletana era entrata in un periodo buio da cui non si sarebbe ripresa se non dopo molti anni. Il partito glorioso degli anni 70, che aveva superato il 40% dei voti e aveva governato la città con Valenzi, era ridotto a uno sterile partito di opposizione, con sempre meno voti, sempre meno capacità di iniziativa in città, indebolito nei suoi gruppi dirigenti e alle prese con una profonda crisi di identità.

Il terremoto aveva aperto una stagione tutto sommato positiva dove presero corpo molti progetti, ma un metodo di governo corrotto e privo di controlli vanificò ben presto le speranze di rinascita dei napoletani. La sinistra si lasciò ammaliare dal potere dei commissariati e dalla gestione consociativa degli appalti e delle risorse confluite nelle casse pubbliche. Una realtà troppo vicina ai nostri giorni per non apparire un monito, un insegnamento da non dimenticare. La storia rischia di ripetersi, gli errori del passato devono valere come monito, la politica deve difendere la sua autonomia, la richiesta di nuove deroghe, motivata dalla necessità di fare più presto, non può tradursi in un lasciar fare generalizzato. Come dimostra il passato, vanificare le regole è sempre la premessa di disastri inimmaginabili.

(5 – continua) 

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