Fece molto scalpore quando si scoprì che un detenuto marocchino, già condannato a cinque anni e sei mesi per associazione internazionale con finalità di terrorismo, aveva richiesto a un affiliato della sacra corona unita una fornitura di kalashnikov e alcuni detonatori. Le criminalità di frontiera sono da sempre le più ferrate nel traffico d’armi, non hanno confini né nell’approvvigionamento né nella cessione. Anzi, in nome del lucro sanno scavalcare disinvoltamente etnie, ideologie, religioni, persino faide interne. Come fortunatamente dimostrò quel procedimento, tuttavia, gli elementi indiziari erano decisamente esigui per verbalizzare “accordi di cartello”; era al contrario l’ennesima prova che da tempo operavano logisticamente scambi tra soggetti singoli. Soprattutto nelle carceri: il che ulteriormente spinge a procedere (o, meglio: a iniziare) sul terreno della riforma penitenziaria.



Elementi più stabili si sono invece visti negli ultimi due decenni per valutare una joint-venture nella produzione di stupefacenti e nella rete del narcotraffico, in parte alternativa e in parte concorrente e complementare alle filiere che virano verso il Sud America. Anche nello sfruttamento dell’immigrazione, attraverso documentati e noti fenomeni di tratta e traffico di esseri umani, la capacità di intervento della galassia terroristica è cresciuta. Pure lì però le semplificazioni non soddisfano, non aggiungono niente né alla sicurezza né alla prevenzione: se talora i componenti di cellule internazionali e gli operativi di azioni terroristiche riescono a infiltrarsi nei flussi migratori, è assai più spesso vero il contrario.



E, cioè, che i miliziani del fondamentalismo armato esercitino intermediazione parassitaria nell’immigrazione illegale di persone (donne e uomini in carne ed ossa) che nulla hanno a che vedere con Daesh o coi tanti gruppi che ad esso guardano se non strategicamente, almeno simbolicamente e nel proselitismo.

L’impressione è che per fronteggiare tutto ciò l’Occidente non abbia ancora fatto i conti con la crisi organizzativa e militare, nei territori di originario radicamento, di Islamic State e Al-Qaeda. Ciò produce una sostanziale incomprensione del rischio di nuove azioni da soggetti provenienti, tra gli altri, dall’Iraq, dalla Siria e dall’Afghanistan: soggetti addestrati, peraltro, svincolati ormai dal disegno di egemonia locale e proiettati su uno scacchiere nuovo, ritenuto contemporaneamente ostile e disattento. In questa magmatica situazione, se è certo chiara la posizione di vantaggio dei gangli centrali rimasti (che contano sulla radicalizzazione e sull’effetto emulativo degli episodi eclatanti), non è meno evidente la condizione di debolezza delle cellule operative dislocate.



Oggi, diritto europeo, policy criminale e know-how internazionale hanno strumenti più forti, procedure repressive più attenzionate (in alcuni casi e contesti, invero, legate a un diritto dell’emergenza cui non dispiace la rete a strascico e l’esercizio anticipatorio ed esasperante dell’azione penale) e un database casistico decisamente più avanzato. La scansione dei lutti ha potenziato l’archivio della criminologia ed è già molto vigile la letteratura critica che ha registrato il mutamento delle modalità d’attacco: prima l’esplosione, poi l’investimento con automezzi; prima gli spari su folle, poi gli attacchi al coltello. Lo strumento scelto corrisponde alle capacità materiali dei gruppi e dei singoli che lo mettono in atto, dalla pianificazione al reperimento delle armi. Il livello più alto della gerarchia sembra oggi però quello della speculazione finanziaria, in particolar modo con le accresciute acquisizioni maturate da questi cartelli criminali nel sabotaggio digitale e nell’hackeraggio.

E d’altra parte, visto un percepito ma non sempre realistico allentamento dell’apprensione collettiva e amministrativa sulle dinamiche del terrorismo internazionale, non vengono meno attualità e necessità di un incessante profiling criminologico, preventivo e successivo, sugli attentatori terroristici e su chi li favorisce in modo giudiziariamente rilevante. Chi agisce, con quali mezzi, in quali contesti ha maturato la scelta eversiva, verso quali ambienti ha orientato predicazione e propaganda?  

La riflessione non si arresta a questi interrogativi. Un altro nervo scoperto col quale l’Occidente e segnatamente l’Europa non hanno ancora debitamente fatto i conti è la forza dottrinale, aggregante e mefistofelica, del risentimento popolare. Non è il risentimento generazionale e velenoso suscitato in territori remoti dal lungo protrarsi e dal tardivo eclissarsi del colonialismo: si tratta di vampate d’odio e paura che vengono da ben dentro i confini d’Europa.

Eppure, passaggi recenti e non lo hanno chiaramente verificato. Nella seconda guerra cecena, dal 1999 al 2009, hanno operato le Brigate internazionali islamiche, certo favorite da finanziamenti provenienti dall’Arabia Saudita, ma alla pari composte da autoctoni, e motivati. Nel Kosovo per la cui indipendenza tanti si erano acriticamente sperticati le mani (senza mai prospettare un “dopo” l’anno zero) ha operato e opera un welfare particolaristico – e foriero di consensi in espansione – essenzialmente basato su charities islamiche, non tutte di cristallina tenuta o di promanazione esclusivamente religiosa. Come negare le potenzialità aggreganti per una propaganda islamista e oltranzista se le istituzioni statali sono in difficoltà palesi su servizi relativi a settori strategici quali salute, scuola, formazione, famiglia? 

Come in una diabolica ringkomposition, invero non voluta eppure doverosa, l’intelligence europea deve muoversi perbene, e non fare collezione di aneddotica à la page, come nel caso del detenuto marocchino o quando emerse pubblicamente che nel comune bosniaco di Maglaj avvenivano esercitazioni militari a cielo aperto (fucili veri per soldati finti, in realtà addestrati clandestini). Occorrerà piuttosto mappare non reticentemente, ma anche ricordare che se la domanda di inclusione sostanziale resta inevasa il bottino va a chi se lo prende. 

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