Sono tempi in cui la speranza c’è anzitutto bisogno di vederla. Così, mentre la Francia celebra il processo all’unico attentatore sopravvissuto alla strage del Bataclan del 2015, Salah Abdeslam, con dialoghi tra giudice e imputato che sembrano più colpi di fioretto che interlocuzioni giudiziarie – Salah ha esordito professando Maometto sommo profeta e il giudice gli ha prontamente risposto che tale verità sarà analizzata successivamente – l’opinione pubblica ancora non si capacita di come l’uomo nero di Parigi abbia scelto proprio all’ultimo di non morire, di non tirare la cordicella che lo avrebbe fatto saltare in aria. Perché scegliamo di vivere e non di morire? Che cosa ci trattiene in questa vita quando tutto sembra essere contro di noi?
Un primo indizio di risposta gli inquirenti lo hanno trovato a Forest – agglomerato urbano di Bruxelles – dove Salah si nascondeva nei giorni precedenti la strage: una serie di lettere, molte indirizzate alla madre, in cui l’uomo nero chiedeva perdono alla genitrice per l’atto che stava per compiere, un atto che l’avrebbe lasciata senza di lui, sola. Nell’ultimo anno la cronaca, la politica, l’attualità, si è fatta carico di tracciare una linea che attraversa la società civile, le famiglie, i social, la Chiesa. Questa linea divide chi ha un legame che lo tiene attaccato alla realtà – e dunque alla vita – e chi, al contrario, questo legame non ce l’ha, al punto da essere completamente in balia non solo dei propri pensieri ma della bolla socio-mediatica che li alimenta. In un tempo segnato dal nulla, chi non ha nulla diventa ostaggio di qualunque cosa. Mentre invece, anche al terrorista più addestrato, basta il bene di una mamma per veder minare l’edificio ideologico delle proprie azioni e delle proprie convinzioni.
L’uomo resta vivo finché è convinto che ci sia ancora qualcuno che lo aspetti. Quando questa certezza viene meno, quando viene meno il desiderio di fare ancora un pezzo di strada – una vacanza, una cena, due passi – con chi amiamo, è allora che si apre una notte che può portare a qualunque epilogo. Anche a quello tragico di una strage.
Speriamo che a Parigi la giustizia sia più curiosa di sapere che cosa ha tenuto in vita Salah piuttosto che condannarlo senza riserve. Uno sguardo di pietà, infatti, potrebbe finalmente intuire e trovare l’antidoto al terrore che da vent’anni tiene in scacco l’occidente. E ognuno di noi.
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