Caro direttore,
un fatto e un anniversario accaduti negli ultimi giorni hanno riaperto il dibattito sul terrorismo domestico e la violenza politica degli anni 70 in Italia, rammentandoci che la ferita di quegli anni, anche se magari ha smesso di sanguinare, è ancora aperta. Il 29 aprile è stato l’anniversario della morte di Sergio Ramelli, diciannovenne militante del Fronte della gioventù, ammazzato nel 1975 sotto casa a colpi di chiave inglese da una squadra di picchiatori legati ad Avanguardia operaia (tutti ex studenti di medicina e poi affermati professionisti, che tra condoni e sconti di pena hanno fatto pochissimo carcere per il reato commesso). Proprio nella stessa data la polizia francese esegue il fermo di 7 ex terroristi (altri due si consegneranno il giorno successivo), tutti condannati per reati di sangue commessi in Italia sul finire degli anni 70 e rifugiatisi in Francia dove hanno spesso condotto vite da intellettuali, protetti dai circoli della “sinistra al caviale” parigina o comunque ben integrati nel tessuto sociale.
Io quegli anni non li ho vissuti, e posso solo lontanamente intuire cosa sia successo e cosa sia passato nella testa delle persone che animavano i centri città e le periferie dell’epoca. Lo capisco sicuramente dai racconti di mio nonno, artigiano con una piccola bottega in zona Carrobbio, che veniva costretto a chiudere le serrande dai cortei che passavano quasi tutti i giorni e che mentre lavorava sperava che nessuno gli bruciasse la 500, appena acquistata e con la quale sperava di poter portare la famiglia in una scampagnata domenicale. O lo posso intuire dai racconti di mio papà, che, studente in un liceo milanese, venne mandato a casa il giorno del rapimento di Aldo Moro dal preside, che chiuse la scuola al fine di proteggere gli studenti dai possibili scontri armati (fortunatamente non avvenuti) di quella tragica giornata, dove molti videro scricchiolare le istituzioni democratiche dello Stato.
Lo posso anche intuire dall’articolo di Maurice Bignami, ex terrorista di Prima linea poi dissociatosi, che continua a parlare di “rifugiati politici italiani” in Francia, che ricorda con nostalgia “dell’ultimo tentativo di rivoluzione nell’Occidente capitalistico” e che definisce l’estradizione di Battisti una “ferita inferta alla democrazia e una degradazione della dignità dello Stato”.
Da queste parole intuisco che c’è ancora molto da fare, molto da riflettere e soprattutto molto da guardare. Considerare rifugiati politi uomini che hanno pianificato e a volte eseguito l’assassinio di dirigenti d’azienda, poliziotti, carabinieri, giudici e che da quarant’anni non solo scappano dalla pena comminatagli, ma si sono sempre rifiutati di dissociarsi pienamente e apertamente dalla violenza politica e di risarcire le vittime, in qualche modo è aberrante, significa equiparare l’Italia, non solo quella degli anni 70 ma anche quella odierna, ad una dittatura violenta. Accettare che un uomo come Cesare Battisti potesse farsi beffa per decine di anni del nostro paese e delle sue vittime è stata una ferita inferta alla democrazia e ogni volta che le sue immagini con quel ghigno beffardo comparivano in televisione potevo solo intuire la sofferenza di chi, a causa di quell’uomo, è costretto su una sedia a rotelle e ha perso il padre. La continua richiesta di una “franca discussione” per arrivare ad un processo di vera pacificazione sembra non portare all’obiettivo dichiarato e a perdersi in vuote chiacchiere e vecchie argomentazioni.
Non si può chiedere alle vittime di perdonare, come fa Bignami. Non lo si può fare nemmeno se i colpevoli avessero chiesto scusa, si fossero pentiti e avessero scontato lo loro pena, figuriamoci se questo non è mai accaduto. Possiamo però guardare a chi ha perdonato: possiamo guardare a Gemma Capra Calabresi, il cui marito fu vittima di uno dei sette arrestati in Francia, che arriva a dire “ho fatto il mio cammino e li ho perdonati e sono in pace”.
Questo cammino lo ha fatto negli anni, con fatica e grazie alla fede e per questo è arrivata a dire che il perdono non è debolezza, ma “è una forza, ti fa volare alto” e ti spinge a desiderarlo anche per gli altri. Per questo Gemma racconta di pregare ogni giorno, riesce a pregare perché loro, gli assassini di suo marito, trovino la pace nel cuore.
Forse però, come dice Gemma Calabresi, è solo in un cammino di fede che si può arrivare a questa agognata pace.
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