Gli Stati Uniti hanno notificato alla Turchia che la sua decisione di acquistare i sistemi missilistici da difesa aerea russi S-400 rende di fatto impossibile proseguire la collaborazione con Ankara sul fronte del programma F-35 che, da un punto di vista tecnico, non può coesistere con una piattaforma russa per la raccolta di informazioni di intelligence, piattaforma che verosimilmente potrebbe essere utilizzata per acquisire informazioni sulle innovazioni tecnologiche degli F-35 coperte da segretezza.
Ebbene, al di là delle repliche prevedibili e scontate da parte turca, che ha definito ingiusta la decisione americana – sottolineando come questo modo di operare sia unilaterale e non sia dunque basato su motivi legittimi -, Mosca ha al contrario sottolineato la propria disponibilità a vendere ad Ankara i caccia Sukhoi Su-35. Difficile non rilevare la presenza di apparenti – e sottolineo apparenti – incongruità sotto il profilo strategico e politico in questa scelta compiuta da Erdogan.
Ora, da un punto di vista strettamente storico, le alleanze politiche sono a geometria variabile poiché dipendono non solo dai mutamenti degli scenari geopolitici, mutamenti spesso molto rapidi, ma anche da questioni relative alla politica interna di un paese.
In primo luogo non dimentichiamoci che la Turchia, dopo Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone era il quarto paese più importante per l’acquisto degli F-35.
In secondo luogo, nel novembre 2015, i turchi avevano non solo abbattuto un bombardiere russo Sukhoi Su-24 ma addirittura Erdogan aveva cercato di indurre la Nato a combattere contro i russi in Siria.
Ora, dal punto di vista strettamente storico, non dobbiamo dimenticare che la Turchia è stata per la Nato uno strumento fondamentale non solo e non tanto per il ruolo di contenimento rispetto all’Urss e dei suoi alleati, ma soprattutto per la sua capacità di proiezione di potenza in Medio oriente. Infatti, da un punto di vista strettamente militare, le forze armate turche sono state addestrate per prevenire una offensiva russa che si presumeva potesse provenire o dalla Tracia o dal distretto trans-caucasico dell’ex Urss.
Alla luce di questi fatti come si spiega questa scelta da parte del governo turco? Diverse sono certamente le spiegazioni possibili ma, secondo gli analisti internazionali, le spiegazioni possono essere sia di ordine politico-militare che di ordine economico.
In primo luogo è difficile negare che la Turchia stia cercando di conseguire un’autonomia di carattere sia militare che politico e proprio per questo stia cercando un accordo con la Russia per la futura spartizione del Medio oriente (Siria e Iraq), cercando non di rompere con gli Usa ma di ridimensionare il loro ruolo nell’area. Proprio in relazione alla questione siriana è opportuno ricordare che per la Turchia le milizie curdo-siriane (le Ypg o Unità di protezione popolare) sono formazioni terroristiche: sono considerate tali anche da Israele e dalla Ue, ma non dagli Stati Uniti che hanno trovato in loro degli alleati fedeli in funzione anti-Isis. Infatti, nell’ottobre 2015, nasce la Syrian Democratic Forces – a maggioranza curda – finanziata e militarmente sostenuta dagli Usa.
Inoltre, a livello di politica interna, una delle maggiori preoccupazioni del leader turco consiste nel fatto che i 25 milioni di curdi che vivono in Turchia possano chiedere autonomia rispetto al governo centrale di Ankara. Ebbene, proprio la Russia ha attuato, per esempio ad Afrin nel marzo del 2018, una politica di tacito consenso all’offensiva turca permettendo all’aviazione di Ankara di compiere i bombardamenti in uno spazio aereo che di fatto era – ed è – sotto il suo controllo, rendendo in questo modo sempre più difficile conseguire da parte curda l’autogoverno nel nordovest della Siria. Tuttavia la politica in Siria della Russia mira alla riunificazione sotto Assad, obiettivo questo certo non condiviso da Ankara.
In secondo luogo la crisi della moneta turca ha certamente contribuito a favorire questo mutamento di strategia. Infatti ad agosto del 2018 il ministro delle finanze turco, Berat Albayrak, aveva presentato un nuovo piano economico e Trump ha posto in essere un rafforzamento della guerra economica con la Turchia raddoppiando i dazi doganali sull’acciaio e l’alluminio della Turchia. A seguito di questo annuncio la lira turca è scesa fino ad arrivare a 6,80 rispetto al dollaro, caduta che è continuata nel giugno del 2019.
In terzo luogo, l’avvicinamento con la Russia è la conseguenza della necessità di raggiungere l’autonomia energetica. Stiamo naturalmente alludendo al gasdotto sottomarino noto come Turkish Stream, con il quale la Turchia intende diventare lo snodo fondamentale tra la Russia, il Medio oriente, il Levante e l’Europa, il cui completamento fu annunciato nel novembre del 2018 a Istanbul. Grazie al gasdotto sarà possibile trasportare circa 15,75 miliardi di metri cubi di gas all’anno, che basteranno a rifornire innanzitutto la Turchia e in un secondo momento i paesi dell’Europa meridionale e sudorientale.
Un‘altra possibile ragione dell’avvicinamento, questa volta da parte della Russia nei confronti di Ankara, è certamente il controllo turco del Bosforo e dei Dardanelli che per Mosca sono uno strumento rilevante per la sua espansione sia nel Mediterraneo che nell’Oceano Indiano e dai quali transita il 38% del petrolio russo.
Inoltre, proprio sul fronte della proiezione marittima, il Mediterraneo orientale costituisce certamente una delle ragioni di conflitto con gli Usa che vuole ostacolare le ambizioni marittime turche contenendole attraverso un’alleanza con la Grecia, Cipro, Egitto ed Israele sancita da Mike Pompeo.
L’allontanamento tattico dagli Usa sarebbe anche la conseguenza del colpo di Stato fallito del 15 luglio 2016. Questo golpe è stato interpretato da diversi analisti come il risultato del presunto coinvolgimento americano, coinvolgimento che potrebbe mettere in discussione l’adesione della Turchia alla Nato e quindi avvicinare la Turchia alla Russia. D’altronde, il coinvolgimento americano – nello specifico della Cia – sarebbe stato verosimile, secondo gli analisti, visto che proprio gli Stati Uniti proteggono in esilio colui che più di tutti ha cercato di distruggere l’attuale leader turco e cioè l’imam Fethullah Gülen insieme al coordinatore della rete gulenista all’estero e cioè Emre Uslu, anch’egli residente negli Stati Uniti.
Infatti la sua presenza negli Usa ha sempre rappresentato un motivo di forte tensione tra la Turchia e gli Stati Uniti, a partire dall’amministrazione Obama. A dimostrazione di questa tesi è stato osservato come Washington abbia atteso – a golpe avvenuto – ad esprimere la sua solidarietà al leader turco proprio nella speranza che Erdogan venisse deposto. Il fatto che, dal punto di vista storico, Erdogan e Gülen siano stati alleati in funzione antikemalista e siano riusciti a ridimensionare il potere delle forze armate, non toglie che – a partire dal 2010 – Gülen e i suoi sodali cercarono di liquidare Erdogan per conseguire un controllo assoluto del sistema giudiziario e politico in Turchia; come dimostrano, fra l’altro, il tentato arresto di Hakan Fidan, direttore dei servizi segreti e fedelissimo di Erdogan, la chiusura delle scuole di preparazione (note come dershane) che costituivano la base del potere gulenista e soprattutto lo smantellamento capillare del network gulenista sia a livello bancario e finanziario sia nel contesto delle forze armate. È assolutamente necessario, a tale proposito ricordare che Gülen era riuscito a creare una sorta di Stato parallelo ideologicamente connotabile come anticomunista, antisemita e nazionalista.
Secondo i sostenitori di questa tesi ci sarebbero altri elementi a sostegno del coinvolgimento americano: in primo luogo il fatto che durante il colpo di Stato solo la Russia e l’Iran hanno espresso subito la loro solidarietà e vicinanza a Erdogan; in secondo luogo, dopo la repressione attuata da Erdogan, il segretario di Stato John Kerry ha minacciato di espellere Ankara dalla Nato. Infine, ad agosto e cioè un mese dopo il fallito golpe, Erdogan e Putin si sono incontrati a San Pietroburgo con lo scopo di raggiungere una normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Russia.
Un’altra ipotesi che è stata presa in considerazione – per esempio da Luttwak su Foreign Policy – è che il golpe sia nato all’interno delle forze armate, che si sia trattato cioè di un tentativo di prevenire ulteriori purghe. In questa ottica il ruolo di Gülen sarebbe stato quello di ispiratore e non di ideatore del golpe.