Ieri molti inglesi hanno deciso di sacrificare il venerdì pomeriggio in coda alle stazioni di servizio dopo che, giovedì sera, BP ha avvertito di non poter più rifornire con regolarità le stazioni a causa delle mancanza di autisti. La notizia è vera, ma la spiegazione ci lascia perplessi, perché non si comprende come sia possibile che una società che fa 11 miliardi di sterline di utili all’anno non riesca a trovare o formare per tempo qualcuno che guidi le autobotti, anche con la Brexit; con le stazioni di servizio vuote, un Paese entra in stato comatoso. L’effetto è una compressione della domanda: l’economia e le persone si fermano o rallentano per un fattore “esogeno”.
È difficile non ritornare alle dichiarazioni rese al Financial Times dal vicepresidente esecutivo di Maersk meno di due settimane fa: “Dobbiamo abbassare la crescita della domanda per dare alle catene di fornitura il tempo per recuperare, oppure spalmare la crescita. In un periodo di tempo più lungo saremo in grado di recuperare l’efficienza”. La fermata di BP potrebbe essere pura coincidenza, ma il quadro generale rimane.
Le tensioni tra Cina, e alleati, e Stati Uniti, e alleati, ancora ieri sono salite di tono con i bombardieri cinesi che sono entrati nello spazio aereo di Taiwan. In uno scenario di questo tipo le catene di fornitura globali non possono che entrare in grande tensione. Sono catene lunghe, frutto della globalizzazione, in cui la manifattura cinese ha un ruolo centrale. L’evoluzione dei rapporti internazionali non è più coerente con un mondo in cui la Cina è la fabbrica del mondo, magari anche di componenti che finiscono in un aereo americano. Descriviamo una situazione, senza scegliere una parte o attribuire colpe, in cui la Cina non può più vendere all’America e in cui l’America non può più comprare dalla Cina.
L’effetto di questo scontro sulle catene di fornitura globale peggiora quanto più peggiorano le relazioni politiche, in un circolo vizioso. I problemi sulla disponibilità di beni sono di dominio pubblico. Mancano i chip per le auto, le console per i videogiochi non si trovano, e moltissimi imprenditori lamentano grandi difficoltà e in alcuni casi l’impossibilità di trovare componenti. Il prodotto finito sullo scaffale è un “incastro” di tante componenti, di macchine utensili, di capannoni, di geografie diverse. Toglierne qualcuna ha degli effetti a catena che mettono a rischio anche settori e produzioni che apparentemente non c’entrano nulla.
Finora la scarsità di beni non è stato un problema percepito dall’opinione pubblica. È rimasto un argomento per “esperti” a cui non è stato dato neanche particolare risalto mediatico. Eppure gli avvertimenti, si pensi alle dichiarazioni di Kamala Harris di fine agosto, sono arrivati. Più le tensioni rimangono, o peggiorano, più i problemi sulla disponibilità di beni diventeranno evidenti anche solo per un effetto temporale.
Se dovessero diventare evidenti ci sarebbero problemi sociali ed economici. I secondi si rifletterebbero anche in un’impennata dei prezzi. Forse è questo il momento in cui le banche centrali non potranno esimersi dal rialzare i tassi, in fretta e furia, per “comprimere la domanda”. Non ci sono solo i tassi di interesse per raggiungere lo stesso effetto. Ognuno può lavorare di fantasia.
Per provare a unire i punti bisogna mettere le lenti della separazione o degli scontri tra Cina, Russia e alleati con “l’Occidente”. È una frattura che impatta le catene di fornitura globale e che diventa un problema politico da gestire. E smontare un mondo che dura da decenni in tempi rapidi è molto, molto complicato. Il problema quindi esiste e parlarne oggi non significa precorrere particolarmente i tempi.
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