La politica americana in Medio Oriente rischia di rafforzare i regimi più estremisti, in un momento in cui gli stessi Stati Uniti sono in una grave crisi istituzionale. Nel suo recente discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Donald Trump ha così descritto l’Iran: “Non solo l’Iran è il più grande Stato sponsor del terrorismo, ma i leader dell’Iran stanno fomentando le tragiche guerre in Siria e nello Yemen”. Nella stessa assemblea, il presidente iraniano Hassan Rouhani ha accusato gli Stati Uniti di “spietato terrorismo economico” e di “pirateria internazionale” contro il suo Paese. Ha poi aggiunto che l’Iran “non  negozierà mai con un nemico che cerca di farlo arrendere con l’arma della povertà”, ponendo la fine delle sanzioni e dell’embargo petrolifero come condizione per eventuali negoziati. Tuttavia, sia Trump che Rouhani si sono dichiarati in favore di iniziative per riportare la pace in Medio Oriente e, in particolare, nel Golfo Persico dove, secondo il presidente iraniano, basta ormai un solo errore per provocare il disastro.



È già un passo avanti, per quanto nominale, visto che ciascuno dei due interlocutori considera l’altro “il grande Satana”, ma il problema è che nessuno dei due è nel pieno dei poteri. Rouhani deve fare i conti con gli estremisti di casa propria, contrari ad ogni accordo con gli odiati americani, Trump ha di fronte una difficile campagna elettorale, oltretutto sotto la minaccia sempre più concreta di impeachment. Se il cosiddetto Russiagate si è progressivamente sgonfiato, sono sorte ora accuse più pericolose, dato che si riferiscono non alle passate bensì alle prossime elezioni. Trump è ora accusato di aver chiesto al presidente ucraino Zelenskij di indagare su Joe Biden, suo possibile avversario nelle prossime presidenziali, in relazione a presunti illeciti di suo figlio in Ucraina. Tutto ciò rischia di aprire un contenzioso con Kiev e, intanto, ha provocato le dimissioni di Kurt Volker, inviato speciale del Dipartimento di Stato in Ucraina.



L’attuale debolezza di Trump si trasmette all’intero Paese, paradossalmente anche a causa della sua messa in stato di accusa, e ciò in un momento in cui la Russia di Putin sta affermandosi come perno nelle complicate vicende mediorientali. Viene così evidenziata la fallimentare politica estera statunitense, la cui responsabilità non può certamente essere addossata al solo Trump, che vi ha peraltro ampiamente contribuito. Nei confronti dell’Iran ha fatto propria, esacerbandola, la decennale inimicizia dalla quale, per la verità, Obama aveva cercato di uscire con il trattato sul nucleare, nella prospettiva di un nuovo e più positivo corso nei rapporti.



Trump accusa l’Iran di essere la madre del terrorismo, ma dovrebbe ricordarsi che tra gli attentatori del settembre del 2001 non vi era nessun iraniano, mentre su 19 dirottatori ben 15 erano cittadini sauditi. Né l’Iran ha molto a che fare con al Qaeda, fondata dal saudita Osama bin Laden, o con l’Isis, con la nigeriana Boko Haram o la somala al Shabaab, tutte organizzazioni sunnite. Teheran appoggia gli sciiti libanesi di Hezbollah, senza dubbio estremisti, ma le loro iniziative sono dirette contro l’Arabia Saudita e Israele, entrambi attivi nel destabilizzare il Libano, come d’altro canto il regime siriano. È da tener presente, comunque, che Hezbollah è parte rilevante nella fragile stabilizzazione del Libano, messa a rischio due anni fa proprio dai sauditi.

Discutibile anche l’accusa a Teheran di aver fomentato la guerra in Siria e Yemen. Nel primo caso, gli Stati Uniti farebbero bene a fare un esame di coscienza sul loro uso delle “primavere arabe”, strumentale alla strategia del “regime change”. Per la Siria, ciò ha significato una tragica guerra che ha distrutto il Paese, con Bashar Assad tuttora al governo e dando un ruolo essenziale alla Russia. Per lo Yemen, il sostegno iraniano ai ribelli Houthi è certo, probabilmente più per danneggiare l’avversario saudita che per affinità religiosa. Tuttavia, gli Houthi non sono i soli attori nella guerra contro il governo appoggiato dai sauditi, perché vi sono i sostenitori del precedente governo, le milizie di al Qaeda e altri jihadisti, gli indipendentisti dello Yemen del Sud.

Se si esce da una aprioristica contrapposizione “buoni” e “cattivi” riesce anche difficile capire le sanzioni contro l’Iran per violazioni di un trattato, quello sul nucleare, dal quale lo stesso Trump si è ritirato. E ciò nonostante siano rimasti gli altri firmatari, compresi tradizionali alleati Usa come Francia, Regno Unito e Germania. Altrettanto si può dire sull’appoggio implicito dato agli attacchi israeliani in Siria contro postazioni iraniane, mentre si condannano i missili lanciati dagli Houthi contro l’Arabia Saudita da cui vengono costantemente bombardati.

Non vi sono dubbi sulla natura autoritaria e confessionale del regime iraniano (era autoritario anche il precedente regime dello scià Reza Pahlevi, amico di Washington), ma lo è altrettanto il regime saudita, alleato di ferro degli Stati Uniti. L’attuale politica statunitense ha come unico risultato di rafforzare questi regimi autoritari, insieme ad altri nella regione.