In piena Guerra fredda vennero distribuiti una serie di film in bilico con l’Armageddon nucleare. L’ultima spiaggia di Stanley Kramer del 1959, fino alla celeberrima pellicola di Kubrik Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, 1964. Non crediate sia archeologia, è premonizione attualissima della cieca potestà del dio dell’algoritmo, della progressione logica e di molti attualissimi dialoghi allucinati nei nostri media.
Sembra non ci siano vie di uscita da questo conflitto aperto molto prima dell’invasione russa in Ucraina. L’impasse è irriducibile. La stessa mente umana che in un sistema decisionale chiuso tende a esulare dalla dialettica del concreto e recede con difficoltà dalle proprie scelte una volta risolte in processo. È l’assioma funzionalistico che si incarna in un apparato sistemico sempre più autoreferenziale.
Il principio tecno-algoritmico è dogma, toglie legittimità alla dialettica del negativo e a ogni ragione dubitativa. Una volta esiliati dal nostro discorso il mistero, lo spirito, il sacro e infine il senso ci resta solo un principio di realtà.
“Eravamo così tecnicamente impegnati a organizzare ben 91 divisioni che non ci fu tempo per la ragione”, fu l’argomentazione dell’impianto difensivo degli alti ufficiali della Wehrmacht nel processo di Norimberga.
Non sono solo le nostre decisioni a creare i fatti. È il dispositivo stesso della loro messa in opera a “inventarli” ben al di là delle nostre aspettative.
Il dispositivo supera il senso. Niente di che, può succedere a tutti di fare qualcosa senza pensare, per abitudine. Ma se tutto è execution lo farà meglio la macchina.
Ecco il punto. Il cuore di ogni dispositivo sistemico è l’algoritmo, una volta “caricato” il suo perfezionamento potrà essere affidato anche all’automatismo di una learning machine. Sembra il plus ultra, lo spirito della perfezione stessa tanto che è assunto a fede, a spirito santo senza mistero.
La cosa dovrebbe farci tremare. Pensate una sequenza algoritmica, composta come si dice da piccoli passi inarrestabili nella loro implacabile successione seriale verso una destinazione programmata di conflitto come quella attuale.
Il New York Times ha pubblicato il 16 e 17 gennaio alcuni articoli dedicati alla possibilità dell’uso di armi nucleari tattiche. Si tratta di congetture accademiche, ma che hanno una valenza a dir poco paranoica. Il 22 marzo il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov è giunto a ipotizzare lo scenario estremo: l’utilizzo del deterrente atomico. Di contro presso gli stati maggiori delle Difese nazionali, della Nato, delle segreterie di Stato la supposizione ha scatenato la corsa a elaborazioni simulative per contromosse adeguate. Molte reti americane hanno rilanciato nelle stesse settimane le conclusioni della simulazione effettuata due anni fa dal programma Science and Global Security dell’Università di Princeton definita “Plan A” che prevedeva una catastrofe incommensurabile quale primo “atto di avvertimento” da parte della Russia e una risposta simmetrica della Nato attraverso ordigni nucleari tattici presumibilmente utilizzati in Europa in grado di provocare in poche ore 90 milioni di morti e feriti gravi.
Il solo fatto che si ipotizzi questo scenario terrificante e se ne parli apertamente persino nei dibattiti e talk show nazionali inaugura lo schema della profezia che si autoavvera. Insomma stiamo articolando un dialogo allucinato destinato ad accendere la schizofrenia e a fatalizzare gli eventi.
Una volta entrati in quella che Graham Allison, analista geopolitico e consigliere alla segreteria della Difesa degli Stati Uniti, definisce “la corrente mortale” che percorre il linguaggio, sarà prima o poi possibile che l’algoritmo strategico l’attualizzi nei fatti.
Si rianima il fantasma della trappola di Tucidide, l’impossibilità di fermare una sequenza in progressione esponenziale, il cui avvio resta incomprensibile proprio per la sua stessa irrilevanza rispetto agli esiti. Ancora nessuno è venuto a capo del perché dell’inizio della Prima guerra mondiale.
Quell’automatismo non riguarda solo la sua versione classica che prevede l’inevitabilità del conflitto tra una potenza affermata e una nascente, oggi verosimilmente applicabile agli Stati Uniti e alla Cina, come evidenzia Graham Allison nel suo Destinati alla guerra, ma anche tra una potenza dominante alle prese con instabilità interne, appunto gli States, e la Russia, tutt’oggi iper-potenza nucleare messa alle strette da un processo di progressiva erosione della sua potestà.
Anche oggi entrano in gioco le motivazioni indicate da Tucidide nella guerra del Peloponneso: si tratta degli interessi, l’ambito della ratio; delle percezioni, strette in una endiadi con la sfera emozionale, e dell’impulso dell’onore. Non deve sembrare arcaico questo termine tucidideo, esso è sempre presente nel profondo anche nella forma di rispetto o di orgoglio di sé eternamente connesso con quello di appartenenza.
La storia ci dice che con queste premesse il conflitto nella maggioranza dei casi è inevitabile, ad accenderlo è l’algoritmo ontologico, una specie di processo ipnotico tra ragioni e pulsioni rese collettive della macchina informativa.
Si può risalire dalla classicità alle recenti concezioni di Richard Neustadt, il più eminente esperto americano sulla presidenza che ascrive le maggiori responsabilità alle (rispettive) politiche interne, ossia alla lotta di poche singole menti, una minoranza politica spesso psicorigida cui si è sempre affidato troppo. Neustadt rispetto alla presidenza degli Stati Uniti osserva che “la debolezza continua a essere il termine da cui partire” per comprendere le scelte della leadership politica, quindi scelte tutt’altro che illuminate da un principio di lucidità e men che meno da un distillato di saggezza o di umiltà.
In nessuna Camera alta si ripetono più le parole del rispetto al mistero di esistere che ci ricordano il nostro limite: “Domine non sum dignus”.
La politica interna tenta di esentarsi dalla responsabilità diretta delle proprie scelte affidandole al dispositivo tecnoscientifico e alle sue ineffabili e perfettistiche procedure computazionali: l’imprescindibile e l’indubitabile. Rappresentano la presunzione della perfezione finalmente raggiunta, la vocazione sostitutiva di tutte le nostre imperfezioni e debolezze, ciò che chiamiamo destino.
Eppure oggi siamo ancora più in pericolo poiché tutto e riposto nelle mani di un nuovo dio, il dio delle certezze e del calcolo.
Così crediamo che vi sia solo una verità, legittimata urbi et orbi, che non ci sia più bisogno del dubbio che inquieta, né di un impegnativo pensiero volto alla ricerca della verità.
È così facile credere all’evidenza di una verità cui tutti danno credito, ed ancora più facile essere intolleranti verso chi pensa in modo diverso, in fondo nel senso comune c’è sempre un nemico che tiene insieme la perduta gente.
Questa è l’era delle credenze intuitive e delle loro emozioni mentre i fatti oggettivi restano fuori dalla nostra portata. Sono troppo lontani. Qui entra in gioco la maturità del marketing, la psicologia del profondo, la manipolazione dei desideri prelinguistici, infine il bisogno di autorità, qualcuno che ci guidi nel caos della complessità, dove il bene e il male sono espliciti e dove si accetta ogni pregiudizio di conferma.
Eppure è proprio ciò che non sappiamo che in una dialettica del concreto può farci riconoscere la verità fattuale. Hegel afferma che “Lo spirito è questa forza [di conoscere] solo perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui”. Ma senza salire al cielo dell’idealismo, chi si accerta per amore di verità cosa raccontano sulla guerra in corso le emittenti del mondo non occidentale? Disponiamo dei mezzi digitali e di un enorme surplus informativo per risalire direttamente a fonti cinesi, indiane, arabe, africane… basta volerlo.
Si deve comunque rispondere al fatalismo della escalation del conflitto aperto in Europa, per non essere solo degli spettatori inermi. Qualcosa si deve fare per spezzare l’algoritmo dell’epilogo apocalittico, per far sentire una voce mediana, la voce della tolleranza, poiché il bene è sempre solo un compromesso e il male e sempre il male che quando inizia nessuno sa quando e come finisce.
Pare però che tutto possa sciogliersi come in un nonnulla, che il tempo storico possa riavvolgersi dopo le avances avverse e il sangue versato. In realtà siamo entrati in un loop universale che inaugura una nuova età del ferro, un’età post-umana, in bilico con il non-tempo della morte planetaria.
Ogni parola in questa tragedia autoimmune pare pronunciata con innocente inconsapevolezza, ogni atto preparatorio di ostilità nelle catene di comando presiedute da pochissimi uomini gettati in uno “stato di eccezione” più grande di loro è una marcia inarrestabile.
Come in una frenesia collettiva è aperta la corsa al riarmo; l’antica parola dei Goti Warra si riaffaccia anche nel mega investimento di 100 miliardi in armamenti della Germania di Scholz, contraddicendo lo stesso postulato della demilitarizzazione imposto dagli Stati Uniti nel Dopoguerra; i laboratori militari di virologia dopo Wuhan e la pandemia prolificano anche nella povera Ucraina; la Cina sta intensificando come una “tigre acquattata” (è il saggio di Peter Navarro) gli esperimenti nucleari dopo i preludi pirotecnici della Corea del Nord.
Tutto sembra evocare la sindrome di Cassandra. La guerra dell’informazione alleva l’odio per il nemico come una nozione di marketing. Intanto la nostra governance sta bellamente tradendo con un decreto legge l’articolo 11 della Costituzione, “L’Italia ripudia la guerra”; in netto contrasto col volere degli italiani per la maggior parte contrario alla fornitura di armi all’Ucraina e all’entrata in guerra della Nato contro la Russia (si veda il sondaggio Emg per Agorà del 17 marzo).
Ad ogni passo della marcia il loop pretende una contromossa preferibilmente potenziata. Fino a quando?
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