La guerra “mondiale a pezzetti”, secondo la definizione di Papa Francesco, sembra sulla via di una pericolosa ricomposizione, cioè di una sua tragica deflagrazione. Tra le varie micce accese, una sembra particolarmente vicina alla polveriera: il conflitto, per vari aspetti irragionevole, tra Washington e Teheran. Nel 1939 ci si chiedeva se “Morire per Danzica”, ma sarebbe veramente assurdo se ora dovessimo chiederci se “Morire per il Golfo”.



Dopo gli attacchi dello scorso mese a petroliere nelle acque degli Emirati, giovedì scorso altre due petroliere, una norvegese e l’altra giapponese, entrambe battenti bandiere di comodo, sono state attaccate nel Golfo di Oman. Washington ha immediatamente attribuito la responsabilità a Teheran e si è detta pronta a rafforzare la propria presenza militare nella regione, anche se nessuna delle navi era statunitense. E nonostante qualche mese fa Donald Trump avesse proclamato il ritiro delle truppe americane dalla Siria (e dall’Afghanistan).



Teheran ha ovviamente negato il proprio coinvolgimento, accusando gli americani di voler far precipitare la situazione. Peraltro, come osservato da molti commentatori anche in Occidente, Washington non ha finora addotto prove consistenti delle proprie accuse e c’è chi comincia a intravvedere pericolosi paralleli con le dichiarazioni che portarono all’invasione dell’Iraq.

Come sottolinea Paolo Quercia nella sua intervista al Sussidiario, è oggettivamente molto difficile attribuire questi attentati, dati i numerosi possibili interessati: gruppi terroristici, uno degli Stati coinvolti nei vari conflitti, fazioni in lotta all’interno di questi Stati. Inoltre, gli attacchi sono avvenuti durante la visita a Teheran del primo ministro giapponese, Shinzo Abe, vista come un tentativo di trovare una via d’uscita al conflitto tra due Paesi con cui il Giappone ha buoni rapporti. E qualcuno potrebbe non aver apprezzato questo tentativo.



Inevitabile pensare all’ala dura del regime iraniano, decisa a riaffermare la sovranità dell’Iran di fronte alle pressioni americane e a rafforzare la propria posizione interna contro l’ala riformista. Fazione che è probabilmente responsabile del fallimento del tentativo di Abe. Al Monitor ha effettuato un’interessante analisi dei vari media iraniani, che ha rivelato all’interno del Paese un dibattito pubblico sconosciuto in altri regimi alleati di Washington, come quello saudita o degli Emirati.

Senza ricorrere a una guerra aperta, l’Iran può danneggiare gravemente gli Stati del Golfo con la più volte minacciata chiusura dello Stretto di Hormuz, da cui passa circa il 20% del commercio di petrolio mondiale. Ciò dà all’Iran una pericolosa arma per danneggiare gli Stati del Golfo suoi nemici, anche solo rendendo pericolosa la navigazione nello Stretto. Una politica “sul ciglio del burrone” che ha il suo antesignano nella “brinkmanship” di John Foster Dulles durante la Guerra Fredda e proprio in Trump un suo seguace, peraltro piuttosto grezzo.

Tra i più danneggiati da questa strategia vi è senza dubbio il Qatar, il più grande esportatore di gas naturale liquefatto, già oggetto del blocco da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrain ed Egitto per le sue aperture all’Iran e la sua vicinanza alla Fratellanza musulmana. Il Qatar ospita anche un’importante base americana e si troverebbe in una difficile posizione in caso di guerra: non si può escludere pertanto qualche azione mirata a destabilizzare l’attuale governo.

Un articolo apparso sul sito di Bloomberg aggiunge altri elementi alla già complessa questione. Come detto, il Qatar è un forte esportatore di Gnl, fatto che lo pone in concorrenza con gli Stati Uniti, diventati negli ultimi anni esportatori di idrocarburi, petrolio di scisto e, appunto, Gnl. Il Dipartimento dell’Energia americano ha definito le esportazioni americane “la distribuzione di gas della libertà nel mondo per dare agli alleati dell’America una sorgente di energia pulita diversa e conveniente”. Un argomento, per esempio, usato contro la Germania e il suo progetto di raddoppio del Nord Stream e, quindi, delle importazioni dalla Russia. Come già indicava Paolo Quercia nella citata intervista, l’obiettivo dell’attuale strategia di Washington non è diretta solo contro l’economia iraniana, bensì anche contro quella cinese.

Come riporta ancora Bloomberg, la Cina è una forte importatrice di idrocarburi: il 70% del suo fabbisogno per il petrolio e il 44% per il gas naturale, che è però meno facilmente stoccabile. Ciò ha portato a un forte sviluppo della costruzione di gasdotti dalla Russia, ma un blocco del Gnl dal Qatar sarebbe molto dannoso per l’economia cinese. Il paradosso è che, a causa dell’attuale guerra commerciale con Washington, Pechino ha per rappresaglia elevato le tariffe sul Gnl che aveva cominciato a importare dagli Stati Uniti.

Si può solo concludere che: “Quos vult Iupiter perdere, dementat prius”.