In una situazione, quella asiatica, di forti tensioni è giunta come una bomba una dichiarazione del vicepremier giapponese Taro Aso che di fatto apre scenari inediti e molto pericolosi, tenendo anche conto che il Giappone dopo la Seconda guerra mondiale ha dovuto rinunciare a ogni pretesa di usare il suo esercito per scopi militari offensivi. Si chiamano infatti Forze giapponesi di auto-difesa: non possono uscire dai confini giapponesi, anche se hanno partecipato a missioni di pace e di soccorso durante emergenze internazionali. “Se la Cina dovesse invadere Taiwan il Giappone si schiererebbe a fianco degli Stati Uniti per difendere l’isola.



Qualsiasi problema che riguarda Taiwan, potrebbe trasformarsi in una situazione di pericolo per la stessa sopravvivenza del Giappone”, ha detto Taro Aso. Secondo Francesco Siscisinologo ed ex corrispondente de La Stampa dalla Cina, “si chiude con queste parole una stagione di ambiguità strategica che durava dagli anni 70, quando in cambio del riconoscimento da parte americana della Cina popolare come unica realtà, Pechino a sua volta garantiva di non perseguire con la forza la riunificazione con Taiwan”. Questo equilibrio adesso viene a saltare, ci ha detto ancora, con conseguenze molto preoccupanti “visto che è intervenuto anche Kurt Campbell, ex consigliere di Barack Obama per l’Estremo Oriente e adesso con lo stesso ruolo per Joe Biden, dicendo che ogni mossa cinese contro Taiwan avrebbe conseguenze catastrofiche”.



Dichiarazione sorprendente quella del vicepremier nipponico, che invoca il diritto a schierarsi militarmente con gli Stati Uniti nel caso in cui la Cina dovesse invadere Taiwan. Come vanno lette queste parole?

Non è sorprendente, perché è l’ultimo passo, in ordine di tempo, di una deriva che dura da molto tempo. Il punto politico è che con queste dichiarazioni, probabilmente anche concordate con gli Usa, si pone fine all’ambiguità strategica che c’era intorno a Taiwan. Una questione che è stata cruciale per 40 anni nei rapporti fra Cina e Stati Uniti dopo il viaggio di Nixon a Pechino nel 1972.



Possiamo ricostruire brevemente questo snodo?

Dopo il viaggio di Nixon a Pechino all’inizio del 1972 per circa otto anni si è avviato un processo molto lungo e laborioso, in cui Usa e Cina, portandosi dietro anche il Giappone, elaborarono un’ambiguità strategica in cui la Cina popolare veniva riconosciuta come l’unica Cina, ma allo stesso tempo c’era il riconoscimento di Pechino di una indipendenza di fatto di Taiwan. Questo status era rafforzato dal fatto che gradualmente Taiwan non ebbe più accesso a tutti gli armamenti che poteva avere nella fase precedente e soprattutto non aveva la garanzia certissima di un impegno americano in caso di tentativo di attacco da parte di Pechino.

E da parte cinese?

La Cina accettava che non avrebbe forzato la mano con tentativi di riunificazione attuati con la forza. Erano tutti elementi di una ambiguità strategica non scritta. Questa ambiguità, che già si era sfilacciata negli ultimi anni, oggi si è rotta, dato che il Giappone dice che la sicurezza di Taiwan è anche una questione di sicurezza sua e che interverrebbe in caso di attacco. Ciò di fatto rende impossibile la riunificazione senza il rischio di una guerra mondiale. Tale ambiguità, come dicevamo, era sfilacciata da anni a causa di tensioni crescenti, ma adesso è finita e si apre un’altra fase.

Che cosa succederà?

Il punto fondamentale è che per Pechino questo è un grosso smacco, davanti al quale può reagire in due modi.

Quali?

Uno è alzare ancora la posta sfidando queste dichiarazioni, cosa che aumenterebbe ancora le tensioni e ci porterebbe in un terreno molto pericoloso. L’altro è compiere un arretramento strategico, che nei fatti significherebbe rinunciare alla riunificazione. Questo arretramento eventuale a sua volta potrebbe avere due conseguenze, una interna per la Cina e una relativa a Taiwan.

Quanto alla Cina?

In Cina potrebbe cominciare una ricerca del colpevole: chi ha portato a questa situazione? La reazione più superficiale sarebbe dare la colpa a Xi Jinping, che oggi subisce questo smacco. Però tale analisi forse non è corretta. Io ritengo invece che questa situazione venga da lontano, da un atteggiamento percepito come “arrogante” della Cina dopo la crisi finanziaria del 2008 in cui Pechino non si è resa conto di un nervosismo crescente in America e in Asia nei suoi confronti. In quegli anni esisteva una leadership collettiva mantenuta dal presidente di allora Hu Jintao ma a cui partecipava anche il predecessore Jiang Zemin. Tale nervosismo crescente è stato trascurato da tutti per oltre un decennio.

Taiwan invece come giocherà questa partita?

Taipei in teoria potrebbe stare zitta oppure potrebbe alzare a sua volta la posta, a questo punto per ottenere il riconoscimento di un’indipendenza formale. Ciò apre dinamiche ancora più complicate. Siamo in una situazione molto delicata, che potrebbe portare se non a una guerra certamente a momenti di alta tensione.

Giappone e Stati Uniti si sono coordinati per mettere in angolo la Cina? 

Certamente. Hanno aumentato la pressione sulla Cina, ma è importante capire che gli Usa e il Giappone pensano che la Cina abbia a sua volta aumentato le pressioni su di loro. Se una Cina integrata nel mondo occidentale si fosse riunificata pacificamente con Taiwan non sarebbero cambiati gli equilibri strategici mondiali, soprattutto non ci sarebbero state conseguenze sul Giappone. Se viceversa la Cina, ponendosi come un avversario, si riprendesse Taiwan, soffocherebbe o potrebbe soffocare l’economia giapponese, che, ricordiamo, per il 70% dipende dall’energia e per il 50% dagli alimentari che transitano per il canale di Taiwan. Quindi l’aumento di tensioni con gli Usa cambia il senso di una riunificazione della Cina con Taiwan e quindi tutta le conseguenze internazionali.

(Marco Tedesco) 

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