L’eliminazione di Qassem Soleimani, il generale iraniano a capo delle Guardie della Rivoluzione, è avvenuta per ordine diretto di Donald Trump, per ragioni in buona parte internein vista delle prossime elezioni presidenziali. I Democratici, promotori del processo di impeachment, si trovano ora di fronte al rischio di indebolire la guida del Paese in un momento di aggravamento della crisi in Medio Oriente. Inoltre, molti elettori possono essere attratti da un Presidente deciso nella difesa degli interessi del Paese e attento, nel contempo, a evitare perdite di cittadini americani impegnati in zone calde.
Vanno in questo senso le reiterate, anche se non consequenziali, dichiarazioni sul ritiro delle truppe dal Medio Oriente e sulla “linea rossa” data dalla sicurezza di soldati e civili americani, il cui superamento comporterebbe la pesante reazione Usa.
Sul fronte esterno, l’eliminazione di Soleimani può portare, almeno nelle intenzioni di Trump, a un “ammorbidimento” del regime di Teheran, che consentirebbe a Washington di riaprire, da una posizione di forza, nuove trattative con l’Iran. A ben guardare, siamo di fronte a una politica estera in linea con quella dei suoi predecessori, solo brutalmente dichiarata e non ammantata con imperativi pseudo morali. E con la stessa tendenza a considerare “danni collaterali” le sofferenze provocate alle popolazioni di altri Paesi. D’altra parte, Afghanistan, Yemen, Siria e Libia non sono opera di Trump, che li ha solo ereditati.
Un risalto particolare dovrebbe essere dato alla tragedia dello Yemen, dove cinque anni di guerra si stimano aver causato più di 100mila morti e ridotto l’80% della popolazione in condizioni disperate. Questi cinque anni hanno dimostrato come nessuna delle due parti che si affrontano, ribelli sciiti Houthi e coalizione internazionale a guida saudita, siano realmente in grado di vincere la guerra.
La situazione si è ancor più complicata con il sorgere di un movimento indipendentista nello Yemen del Sud, protagonista di scontri sia con gli Houthi che con le truppe governative. Oltretutto, dopo la perdita della capitale Sana, il governo sostenuto dai sauditi risiede proprio ad Aden, oggetto di attacchi da parte degli indipendentisti. Costoro sono sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti, che hanno iniziato a ritirare i loro militari, al pari di quanto deciso dal nuovo governo del Sudan succeduto al regime di Omar al-Bashir.
Accanto all’instabilità delle alleanze in Medio Oriente, anche in Occidente sta crescendo l’insofferenza per questo sanguinoso conflitto, in cui tutti gli attori sono accusati di crimini di guerra. Negli Stati Uniti, lo scorso aprile il Congresso si è espresso per il blocco dell’assistenza militare all’Arabia Saudita nella guerra in Yemen, una delibera bipartisan bloccata dal veto di Trump. Nel Regno Unito, lo scorso giugno una sentenza della Corte d’Appello ha definito illegale la vendita di armi all’Arabia Saudita, a causa della guerra nello Yemen.
Negli ultimi tempi si era verificato un netto rallentamento delle operazioni militari e l’inizio di contatti tra le parti in lotta in vista di un possibile accordo, per quanto ancora lontano. Dagli Stati Uniti si era cominciato a riconoscere che gli Houthi, pur aiutati dall‘Iran, non ne erano una propaggine e che le loro rivendicazioni avevano natura essenzialmente locale. L’uccisione di Soleimani rischia di rimettere tutto in gioco.
Anche gli Houthi si sono uniti alle manifestazioni in Iran per celebrare il “martire” Soleimani e contro gli Stati Uniti, dimostrazioni in qualche modo “dovute”. Le cose hanno preso un diverso aspetto con la notizia che, contemporaneamente all’attacco a Baghdad, gli americani ne avevano tentato un altro contro un esponente iraniano nello Yemen. L’attacco è fallito, ma costituisce una seria minaccia alla cauta distensione che si stava profilando, sia per le aspre reazioni provocate tra gli Houthi, sia perché rappresenta il primo diretto intervento militare degli Stati Uniti nello Yemen.
Infatti, negli ultimi giorni si sono ravvivati gli scontri: i governativi hanno causato una settantina di morti tra i miliziani Houthi e un attacco missilistico, attribuito a questi ultimi, ha provocato più di un centinaio di vittime tra soldati governativi in preghiera nella moschea di un campo militare. E i combattimenti sembrano destinati a continuare.