Il “peggio” della terza guerra mondiale – che oggi tutti minacciano o temono – era atteso in termini assai diversi da quelli che due giorni fa ha prospettato sul Financial Times, con fin troppa nonchalance, il geopolitologo Harlan Ullman: lo sgancio di un ordigno nucleare russo al centro del Mar Nero, in parte a fini dimostrativi, in parte con un primo “effetto-Chernobyl” a raggiera fra Europa, Nordafrica, Medio Oriente. Il “peggio” era – e forse resta – l’incognita di azioni di disruption delle reti digitali globali (anzitutto finanziarie): insidia che tuttora molti osservatori giudicano alla portata delle hacking & trolling factory disseminate in Russia, non meno che ai “reggimenti 4.0” dislocati in Cina.



Il Dragone è il paese che negli ultimi due anni ha contagiato il pianeta con gli effetti oggettivi di una “guerra batteriologica” mai prima sperimentati.

Quasi ottant’anni dopo una guerra mondiale abbreviata infine da un bombardamento nucleare Usa sul Giappone ad evitare uno sbarco-bis in stile Normandia, Vladimir Putin ha invece scatenato una guerra con approccio strategico e tecnologie militari del secolo scorso, se non addirittura di quello precedente. Si è impegnato nell’invasione terrestre di un Paese confinante con armi largamente convenzionali, neppure tutte e neppure di ultimo grido. Può darsi, anzi tutti si augurano che tutto rientri in un calcolo spietatamente razionale di guadagni geopolitici ritenuti accettabili al prezzo (sempre inaccettabile) di “poche migliaia di morti”: come pensava Benito Mussolini a seconda guerra mondiale appena iniziata. La definizione di fini e mezzi della “guerra di Putin” – e il loro rapporto – sta comunque emergendo sempre più al centro delle analisi.



La “guerra mondiale” sembrava nozione obsoleta: e non è escluso – e, ancora una volta, augurabile – che la crisi ucraina la renda definitivamente tale. Se la “guerra di Putin” è un conato “patriottico” (nazionalista-imperialista) ormai fuori dalla storia lo si vedrà in tempi brevi, in funzione prevedibile dell’efficacia delle sanzioni economiche imposte a Mosca. Altri paesi – a cominciare dalla Cina – sembrano comunque destinati a raccogliere i frutti di un investimento troppo rischioso e troppo costoso com’è oggi una guerra convenzionale: a meno che non si tratti di un’azione “shock and wave”, di una guerra vinta in partenza come quelle portate per due volte dagli Usa in Medio oriente. Entrambe le guerre del Golfo avevano motivazioni anche non strettamente economiche. La seconda è andata a “vendicare” l’11 settembre, ammesso che l’Iraq di Saddam Hussein ne fosse il vero responsabile. Ma la prima – dopo l’invasione del Kuwait –  aveva come obiettivo la difesa dell’Arabia Saudita, tuttora il maggior forziere di petrolio del pianeta. Lo stesso intervento Nato in Kosovo ha avuto palesi finalità geo-politiche (quindi ampiamente economiche): impedire che attraverso la Serbia la Russia – agli albori dell’era putiniana – premesse sul Mediterraneo, non solo ai confini Nato.



Ora Mosca lamenta la pressione Nato dal territorio ucraino e le mappe dell’invasione sembrano segnalare la volontà russa di sigillare la costa del Mar Nero, dal Donbass e dalla Crimea fino a Odessa e ai confini moldavi e rumeni. Un’Ucraina “occidentale” senza sbocchi al mare e spezzata come il Vietnam di sessant’anni fa è un obiettivo che giustifica l’”operazione militare speciale” lanciata dal Cremlino? Ogni giorno di guerra in più aumentano i numerosi esperti che ipotizzano un errore strategico da parte di Mosca: perché provocare un altro grosso “pezzo di guerra mondiale”, invadendo un Paese europeo popolato da 42 milioni di persone (non il Kuwait e neppure l’Iraq) e senza effettivo peso geo-economico salvo un’importante produzione di grano?

I “fronti” della terza guerra mondiale sono altri da tempo. Il primo vede la Russia da sempre in prima linea: è l’Artico. È un confine diretto con il Nord America, ma è soprattutto un enorme giacimento di 400 miliardi di barili di petrolio-equivalente fra greggio e gas naturale (dieci anni di consumo globale corrente). Si tratta di risorse fossili tecnicamente ancora di difficile sfruttabilità e di giurisdizione internazionale ancora incerta. Ma le polemiche sulle trivellazioni in Alaska hanno già infiammato più di una campagna presidenziale negli Usa e oggi meno che mai appare bizzarra l’ipotesi – del tutto non bellica – fatta balenare da Donald Trump di acquisto della Groenlandia dalla Danimarca. Poco bizzarra, soprattutto, nei giorni in cui l’Arabia Saudita sembra fredda sulla richiesta della Casa Bianca di produrre più petrolio per consentire l’embargo verso la Russia.

Dal deserto ghiacciato in cima al pianeta a un enorme deserto tropicale nella calotta opposta: l’Australia. Non è un mistero che vi sia il “Quinto Continente” nel mirino strategico della Cina: assai più del preteso obiettivo “patriottico” di Taiwan. La cui riannessione alla mainland sarà certamente perseguita e probabilmente ottenuta, ma è prevedibile assai più in stile Hong Kong e Macao (cioè fine di un’occupazione “coloniale” occidentale) che in brutale stile “ucraino”. Analogamente, non è immaginabile (almeno nell’immediato) una minaccia militare da nord all’Australia, come tentò il Giappone durante il secondo conflitto mondiale. Canberra si è ad ogni buon conto cautelata precipitosamente pochi mesi fa con l’accordo navale Aukus con Usa e Gran Bretagna (ormai post-Ue) .

Se la grande piattaforma dell’Oceania fosse una fitta mappa tribale come quella africana, è probabile che Pechino l’avrebbe già ri-colonizzata come ha fatto nel “continente nero”. Tre secoli fa la Britannia vittoriana mandò agli antipodi alcune centinaia di migliaia di galeotti che oggi sono divenuti meno di 30 milioni di europei “australi”. La Cina nel deserto australiano è pronta a mandare centinaia di milioni di cinesi dalle sue gigantesche aree interne, ancora sottosviluppate. L’obiettivo sarebbe la valorizzazione di un territorio apparentemente “invivibile”.

Ma anche l’Africa (compresa quella subsahariana) sembrava un osso troppo duro da mordere anche per il Dragone del ventunesimo secolo: invece il land grabbing (fra l’altro molla delle ondate migratorie del Mediterraneo) ha confermato che per l’economia cinese (autoritaria all’interno e aggressiva all’esterno) nessun luogo del pianeta è insfruttabile. La tecnologia, la popolazione, la governance e la capacità di investimenti di quella che è ormai la prima potenza economica planetaria non conoscono ostacoli apparenti. E non necessitano – almeno apparentemente – di avventure belliche.

Non sappiamo se Xi scatenerà mai un’azione bellica come quella di Putin in Ucraina, che sta facendo parlare di “terza guerra mondiale”. Ma la Cina sta già conducendo: e chissà se – per paradosso – l’Europa dovrà un giorno ringraziare la Russia di averla svegliata dal suo torpore. Anche perché un Putin “non vincente” in Ucraina ha buone probabilità di diventare un avamposto cinese in Occidente: un terminale diverso della Via della Seta.

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