Soleimani è tornato in patria da martire e i suoi funerali si stanno svolgendo al cospetto di una folla enorme. Ora Teheran e Washington si studiano a distanza. Ieri l’Iran ha fatto sapere che abbandonerà l’accordo sul nucleare del 2015 e arricchirà l’uranio “senza restrizioni in base alle sue esigenze tecniche”, mentre Trump ha dichiarato di essere pronto a colpire 52 obiettivi “importanti per l’Iran e la cultura iraniana”. Il numero non è casuale: erano 52 i cittadini americani che furono tenuti in ostaggio nell’ambasciata Usa a Teheran dal 1979 al 1981.
Intanto l’Iraq ha votato il ritiro delle truppe statunitensi e due razzi hanno causato esplosioni nei presi dell’ambasciata americana di Baghdad. “Se l’Iran dovesse attaccare qualunque persona o obiettivo americano gli Stati Uniti colpiranno subito anche in maniera sproporzionata”, ha scritto su Twitter il presidente americano.
La situazione è sospesa è una guerra aperta è un’eventualità possibile, dice Francesco Sisci, giornalista, editorialista di Asia Times ed esperto di Cina. Per lo stretto di Hormuz transita il 20% del petrolio mondiale e si tratta di capire quali potrebbero essere le mosse di Cina e Russia, che attendono di vedere come reagirà Teheran.
Si direbbe che Trump è riuscito a ricompattare l’Iran, diviso dalle proteste contro la crisi economica e ora nuovamente unito contro il nemico esterno.
Non è così semplice. In Iran c’è un partito della pace e uno della guerra e Soleimani era il capo del partito della guerra. Quel partito aveva un interesse fondamentale a mantenere aperti i mille focolai di guerra sostenuti da Teheran: la Siria, lo Yemen, la tensione in Bahrain e nel Golfo, il Libano, la striscia di Gaza. Attraverso queste agende il partito della guerra può controllare di fatto quasi tutto il bilancio dello Stato.
E il partito della pace?
Il partito della pace invece sta trattando da tempo con gli Usa. Vuole un accordo con l’America anche per riprendere possesso del bilancio dello Stato.
Cosa rappresenta in questo quadro la fine di Soleimani?
Di fatto indebolisce il partito della guerra in due modi: perché gli toglie il capo carismatico e il prossimo capo non si sa se sarà “bravo” come lui. E perché se gli Usa hanno colpito Soleimani potrebbero colpire anche il suo successore. Questo in Iran complica tutto.
Significa che il partito della pace è il vincitore? A giudicare dalle manifestazioni di piazza non si direbbe.
Quanto in effetti la mossa di Trump favorisca il partito della pace in Iran è proprio ciò che non è ancora chiaro. Teheran ha annunciato una vendetta durissima, e così si è presa un po’ di tempo per una risposta. Se la risposta non ci sarà, se sarà debole o peggio fallimentare, il “partito della guerra” avrà subito un duro colpo. Se la risposta sarà molto violenta e porterà alla guerra allora i successori avranno vinto, anche se temporaneamente, perché è improbabile una vittoria militare iraniana contro gli Usa.
L’affermazione del partito della pace significa una vittoria degli Usa?
Solo sul piano della guerra-guerra. Gli Usa negli ultimi 20 anni si sono dimostrati incapaci di “vincere” una pace, cioè non sono riusciti a imporre un futuro di pace ai paesi che hanno vinto in uno scontro militare.
Dunque lei non esclude uno scontro militare. Con quali possibili sviluppi?
È possibile che dopo una guerra con gli Usa l’Iran diventi uno Stato fallito, come l’Iraq o la Libia, o frantumato come la Siria. Ma è improbabile che l’Iran politico di oggi sopravviva a uno scontro militare con gli Usa. Gli Ayatollah lo sanno.
Che cosa intende dire?
Queste considerazioni potrebbero spingere gli Ayatollah, che saranno ostili ma non sono pazzi, a una trattativa con gli Usa. In ogni caso dobbiamo aspettare alcuni giorni. Inoltre tutti questi sono calcoli razionali. In base a calcoli razionali una guerra non si dovrebbe fare mai, perché una delle parti, quella perdente, ha in teoria più vantaggio a cedere senza uno scontro distruttivo.
In realtà le guerre si fanno proprio perché qualcuno sbaglia i calcoli.
Certo. O perché quello che perde pensava di vincere, o perché qualcuno calcola in base a logiche come quelle suggerite da nazionalismo, orgoglio, equilibri di poteri interni eccetera, diverse da quelle del vantaggio ragionevole. Va anche detto che una guerra vera con l’Iran sarebbe comunque molto complicata per gli Stati Uniti e politicamente sarebbe incerta.
Incerta?
Sì. L’America vinse militarmente in Vietnam ma perse politicamente. In Iran il “partito della guerra”, forte dell’esperienza di Assad in Siria, potrebbe avere interesse a una guerra-guerra con gli Usa, perché l’Iran potrebbe uscirne a pezzi ma un pezzo potrebbe sopravvivere e quel pezzo rimarrebbe fermamente nelle mani loro. Ciò dipende molto però dall’atteggiamento della Russia e della Cina.
Che cosa farebbero? Appoggerebbero o lascerebbero Teheran a sé stessa?
Il rischio maggiore è per la Cina. Il 15 gennaio dovrebbe firmare un mini-accordo commerciale con gli Usa e avere una tregua, ma oggi la partita iraniana le confonde le carte. Se c’è una guerra, questa arriva praticamente al confine cinese e interrompe il tratto più importante della Via della Seta. Se c’è un accordo, di fatto gli Usa entrano in Iran, quindi un altro pezzo della Via della Seta va sotto il controllo americano.
Cosa significa “entrano in Iran”? Non è una previsione troppo ottimistica?
Se ci fosse una pace con l’Iran il paese si avvicinerebbe in qualche misura a Washington. Siamo molto lontani da questa eventualità, ma una pace potrebbe riavvicinare finalmente Teheran all’America e questo potrebbe far rientrare gli Usa in gioco. L’eventualità non è impossibile. Oggi gli Usa hanno sviluppato un rapporto sempre migliore con il Vietnam, un processo simile potrebbe accadere con l’Iran. Non è una cosa di domani, ma potrebbe non essere impossibile.
Torniamo alla Cina. Non è chiaro quale sia il suo rilievo: non è sufficiente che la Cina attenda gli sviluppi?
Non è così semplice. Il punto è che la Cina ha una scarsa comprensione vera del gioco politico internazionale, quindi ha una strategia limitata e non globale per di più con un tallone d’Achille enorme: la debolezza del suo sistema politico, che è molto rigido. Però c’è forse un vantaggio tattico. La presente crisi iraniana oscura le tensioni a Hong Kong e soprattutto limita i rischi delle presidenziali a Taiwan.
Che, ricordiamo, sono tra poco: l’11 gennaio. Cosa può succedere?
Lì la presidente uscente Cai Yingwen dovrebbe essere rieletta e potrebbe spingere a aumentare la tensione con Pechino. Se c’è una crisi tra Usa e Iran, Washington può avere molto più forza nel dire a Taipei di stare calma. In tal mondo Pechino guadagnerebbe qualche mese.
Non abbiamo ancora parlato della Russia.
La Russia in ogni caso risulta vincente: se c’è una guerra può accusare l’imperialismo americano e giocare ad aizzare gli animi per aumentare le perdite Usa. Se Teheran tratta, Mosca può arrogarsi meriti veri o falsi nell’avere contribuito a piegare il vicino. In realtà la Russia ha poco da perdere e non deve mantenere grandi rendite di posizione. Può muoversi con grande flessibilità. C’è anche uno sviluppo recentissimo: nei giorni scorsi Putin ha ringraziato gli Usa per l’aiuto ricevuto a sventare degli attentati terroristici. Forse c’è l’inizio di una collaborazione tra le parti.
Se guardiamo la crisi dal punto di vista dell’America?
Per gli Usa è una scommessa che dovrebbe essere ragionevolmente vincente. Se Trump piega l’Iran, vince le elezioni perché ha risolto il problema iraniano. Se l’Iran va alla guerra, allora vince le elezioni perché raramente si boccia un presidente in guerra. L’unica possibilità di fallimento è che la guerra si volga rapidamente in un disastro, che qualcosa vada davvero storto e che il conflitto dia fuoco alle polveri di una crisi economica pesante. Ma al momento le possibilità di fallimento paiono remote.
E tuttavia lei non le esclude. Perché?
Perché in passato gli iraniani hanno vinto la guerra in Siria e la guerra contro l’Iraq negli anni 80 partendo da condizioni inizialmente molto difficili. Inoltre proprio quarant’anni fa l’Iran tenne in scacco per mesi l’America con gli ostaggi e l’allora presidente Carter perse le elezioni proprio per quella crisi.
(Federico Ferraù)