Caro direttore,
mano a mano che – purtroppo – la guerra russo-ucraina assume i contorni di “terza guerra mondiale”, cresce l’interesse a cercarne tracce e similitudini nelle due precedenti, per quanto ormai non più vicine.

Tutte e tre hanno comunque avuto la scintilla nell’Est europeo: In Bosnia e Serbia nel 1914; in Polonia nel 1939; in Ucraina nel 2022. Dopo più di un secolo i Balcani – categoria storico-geografica apparentemente desueta – si confermano ventre molle della stabilità globale: anche dopo decenni di criticità geopolitica più visibile in altre aree del pianeta (per esempio nel contiguo Medio Oriente, o in Iraq, Iran e Afghanistan). Ma la guerra del Kosovo non è forse un capitolo recente di una lunghissima Questione Balcanica?



Questa affonda le sue radici nell’attrito fra l’Impero Ottomano e le diverse “Europe cristiane” – quella occidentale (cattolica) e quella slava (ortodossa) – tutti attraversati dall’ebraismo della diaspora. Un altro “filo rosso” intrecciato: dall’attentato di Sarajevo all’assedio di Odessa, passando per i pogrom zaristi e per l’orrore della Shoah (senza dimenticare il genocidio armeno e il sionismo realizzato). Fino agli odierni tentativi di mediazione di Turchia e Israele.



L’impero asburgico lancia un ultimatum alla Serbia per rappresaglia contro l’assassinio dell’erede al trono di Vienna; la Germania nazista invade la Polonia e la Russia putiniana l’Ucraina: i due ultimi passaggi resi in parte omogenei da un revanscismo imperialista alla ricerca di “spazi vitali” (la Russia odierna d’altronde può essere accostabile anche all’ultima Austria-Ungheria come “dinosauro” obsoleto nella fase iniziale di un “secolo nuovo”).

Tre “grandi Paesi” decidono di aggredire altrettanti “piccoli Paesi” confinanti. La narrazione storiografica – più che quella delle cronache contemporanee – ha avuto pochi dubbi nel distinguere fra “colpevoli” e “vittime”: anche perché – almeno nei due casi definitivamente compiuti – i colpevoli delle aggressioni iniziali hanno subito poi la punizione finale da parte della storia. Se tuttavia la Serbia di inizio Novecento, la Polonia fra le due guerre e l’Ucraina post-Urss vengono osservate “in laboratorio” – esercizio certamente complicato e opinabile – è difficile non trovare qualche similitudine in un iper-nazionalismo di stampo autocratico (che alla Serbia è costata una “operazione militare speciale” della Nato ancora nel 1999 e alla Polonia una recentissima procedura d’infrazione Ue per presunta violazione dei principi democratici).



La stessa Ucraina – prima del 22 febbraio scorso – non era affatto considerata un Paese dotato degli standard istituzionali, politici, economici e sociali utili all’ingresso nella Ue: era considerata una “democrazia imperfetta”, popolata di oligarchi, già fronte di nuove guerre fredde o calde. Se comunque la Belgrado del 1914 armava la Mano Nera di Gavrilo Princip, la Polonia del maresciallo Pilsudski è passata agli annali essenzialmente come baluardo ricostruito nell’Est Europa dopo la Grande Guerra contro la Russia lenin-stalinista: caposaldo avanzato di un “ordine europeo” con baricentro a Londra e a Parigi. Varsavia era ben lontana dall’essere una liberaldemocrazia. E il corridoio di Danzica – garantito alla Polonia dopo il primo conflitto e teatro del debutto del secondo – aveva agli occhi di Hitler lo stesso potenziale provocatorio dell’Ucraina “occidentalizzata” vista dal Cremlino dopo il 2014.

La Russia zarista perde disastrosamente la prima guerra mondiale: nella quale era entrata con ambizioni “panslaviste”, uscendone infine distrutta e umiliata da un drammatico “regime change” indotto dalla Germania, che infiltra la rivoluzione leninista. Berlino, tuttavia, non ne beneficerà nel 1918 e neppure nel 1939-45. La Russia stalinista vince poi la seconda guerra mondiale dopo aver seriamente rischiato di perderla, anzi: dopo aver perso la “fase uno” contro la Germania, seguito a un infido “appeasement” iniziale. Mosca vince tuttavia solo potendosi consentire 40 milioni di morti fra militari e civili e soltanto con l’aiuto decisivo degli Alleati anglo-americani. Il Cremlino perde poi la Guerra fredda: la sua “sfera d’influenza” nella Cortina di ferro dura meno di mezzo secolo e soccombe nello “scontro di civiltà”  (fra modelli politico-economici creati a partire dal XIX secolo nell’emisfero settentrionale, “bianco”). La Russia aveva già perso la guerra russo-giapponese del 1904-5 e non emerge poi mai come netta “vincitrice” geopolitica: non in Medio Oriente o in Afghanistan; sempre ossessionata dagli sbocchi in “mari caldi” (oggi Mariupol). Soprattutto: alla fine del XX secolo si lascia sorpassare dalla Cina post-maoista sul piano economico e poi neo-coloniale in Africa. Già negli anni 60 si era lasciata rapidamente rimontare il vantaggio iniziale sugli Usa nella corsa allo spazio (consentendosi solo di esibire quei missili a Cuba). Nella frustrazione brutale di Vladimir Putin c’è sicuramente un lungo passato di sconfitte strategiche del suo “impero”.

Gli Stati Uniti lasciano deflagrare le due “guerre europee” del XX secolo senza quasi degnarle di attenzione (il Vecchio Continente resta pur sempre l’oppressore delle guerre di Indipendenza). Nel 1939 assistono dalla finestra per anni al suicidio definitivo del Vecchio Continente (vi metteranno piede solo nel 1943 in Italia). Ma era accaduto così anche un quarto di secolo prima: per gli Usa fra 800 e 900 i teatri di guerra erano il Messico, i Caraibi, le Filippine. L’America entra nella Grande Guerra solo nel 1916: per vincerla nell’Europa devastata, cominciando poi ad esercitare un potere più “soft” che “hard”; più economico-finanziario che colonial-militare.

Quando gli States vengono risucchiati anche nella seconda guerra – che diventa “mondiale” solo dopo Pearl Harbour – avviene sullo scacchiere del Pacifico. È  lì che già da tempo si stanno scornando con il Giappone: “svegliato” dagli Usa un secolo prima da un isolamento feudale e rapidamente divenuto una potenza industriale e militare con ambizioni d’influenza pan-asiatica. È contro Tokyo che Washington dichiara pesanti sanzioni economiche, iniziando a sostenere in Cina la resistenza del Kuomintang (i nazionalisti poi divenuti acerrimi avversari della rivoluzione maoista e infine ritiratisi a Taiwan). Franklin Delano Roosevelt rimane invece a lungo avversario di Hitler solo per via indiretta: finanziando la Gran Bretagna di Winston Churchill e dichiarando l’embargo petrolifero verso il Giappone quando questo si allea con Germania e Italia. Gli Usa forniscono armi convenzionali alla Russia, ma le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki non sono sganciate solo per chiudere la partita in Giappone, ma anche per tenere lontana l’Urss dallo scacchiere indo-pacifico e spaventare la già minacciosa Cina “popolare”.

Era stato così nei due anni precedenti: l’invasione (americana) dell’Europa – prima in Sicilia, poi in Normandia – era stata voluta essenzialmente per tenere almeno metà di quella porzione d’Occidente nell’orbita “liberaldemocratica” (concretamente: nella sfera d’influenza Usa): per garantire a Washington una solida “testa di ponte” geopolitica contro l’Urss e un ricco mercato. Churchill aveva ventilato che il secondo fronte (o un terzo) venisse aperto nell’area balcanica: per sbarrare l’avanzata sovietica in Europa più a est di Praga e Budapest, forse anche lontano dal Mar Nero. Ma la Gran Bretagna imperiale non esisteva già più: e a Yalta (nella Crimea ucraina, di fatto annessa dalla Russia nel 2014) Roosevelt e Stalin sancirono definitivamente l’ordine mondiale durato fino al 1989. È però ormai è chiaro che se c’è una regione del pianeta refrattaria a qualsiasi ordine, questa è l’Europa orientale.

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