Durante una recente audizione al congresso il generale Mark Milley, al vertice delle forze armate americane, ha dichiarato che la Cina non ha le capacità militari per tentare la riunificazione con Taiwan e quindi nel breve e nel medio periodo ci sono poche probabilità che Pechino invaderà militarmente quella che ritiene essere “l’isola ribelle”. Una dichiarazione che si differenzia da quella dall’ammiraglio Phil Davidson, che quando era a capo del Comando dell’Indo-Pacifico aveva sostenuto che la Cina nell’arco di sei anni avrebbe invaso Taiwan con un’operazione aero-navale.



Al momento non possiamo comprendere le reali ragioni che hanno ispirato le dichiarazioni di Milley, ma possiamo dire che si basano su una valutazione complessiva delle reali capacità dell’Esercito di liberazione popolare di accelerare i propri programmi di modernizzazione, in modo da avviare l’invasione dell’isola. Una capacità che per il generale americano al momento mancherebbe all’esercito cinese.



Al netto delle divergenze all’interno dei vertici delle forze armate americane, quello che va detto è che ormai si discute non sul “se” la Cina invaderà Taiwan, ma sul “quando”, se cioè verrà anticipato ai prossimi sei anni il ricongiungimento previsto dalla propaganda di Pechino per il fatidico 2035. Discorsi che dalle parti di Taipei devono suonare molto poco rassicuranti, visto che il ministro degli Esteri, Joseph Wu, dopo l’ennesima dimostrazione di forza di Pechino che ha fatto attraversare da 28 aerei da guerra la “zona di identificazione della difesa aerea” istituita da Taiwan, ha dichiarato in un’intervista alla Cnn che il suo paese deve prepararsi al conflitto con la Cina e che “quando il governo cinese dice che non rinuncerebbe all’uso della forza conducendo esercitazioni militari intorno a Taiwan, è preferibile prendere la cosa seriamente”.



Josep Wu nell’intervista ha anche denunciato apertamente le operazioni di “guerra ibrida” di Pechino, che punta a destabilizzare l’opinione pubblica dell’isola attraverso un misto di guerra cognitiva, campagne di disinformazione incentrate sull’andamento della pandemia e intimidazioni militari. Un’intervista che ha palesato ai media americani le preoccupazioni dell’opinione pubblica dell’isola e ha fatto comprendere come si combatterà la guerra per Taiwan, dicendo chiaramente che “dobbiamo impegnarci in una guerra asimmetrica, in modo che la Cina capisca che c’è un certo costo che deve pagare se vuole iniziare una guerra contro Taiwan”.

A leggere bene le dichiarazioni di Wu si capisce che in realtà la guerra asimmetrica con la Cina è già iniziata ed è combattuta su più livelli e con strumenti e strategie diverse. A fronte di questa considerazione possiamo comprendere la differenza di postura del generale Milley e del ministro Wu, fra chi traccia l’orizzonte temporale del vero e proprio conflitto militare e chi, invece, si trova a gestire una crisi già in atto, valutando gli strumenti da impiegare.

Se le relazioni fra Taiwan e Stati Uniti sono più solide che mai, è difficile pensare che gli americani vogliano impegnarsi nell’immediato in un conflitto armato con la Cina. Una possibilità avvalorata dal fatto che, dopo che con l’amministrazione Eisenhower si rischiò un attacco nucleare, i rapporti fra i Taiwan e Usa non sono scevri da una certa indefinitezza, da quella che Kissinger chiamò “ambiguità strategica”. Da quando nel 1972 il presidente Richard Nixon, a completamento della strategia di Kissinger, accettò che Taiwan fosse parte di “una sola Cina” e dopo che nel 1979 Jimmy Carter annullò il trattato di difesa, non è più certa la volontà degli americani di far morire i propri soldati in difesa del suolo taiwanese.

Probabilmente il governo di Pechino ha avvertito questa indecisione e prova ad utilizzarla a proprio vantaggio, ma non deve certo immaginare che gli americani gli abbiano lasciato campo libero, anche perché la battaglia per Taiwan ha tanti giocatori che al momento ricoprono un ruolo decisivo.

Non sembra un caso che recentemente il ministro della Difesa giapponese, Nuobo Kishi, ha dichiarato che la sicurezza di Taiwan è strettamente collegata a quella del Giappone e le tensioni generate dalle attività militare cinesi finiscono per impattare direttamente sulla stabilità dell’area. Il ministro Kishi ha fatto chiaramente capire che la Cina sta facendo volgere a suo favore il confronto con Taiwan e la cosa sta diventando un serio problema anche per il Giappone.

Se alle preoccupazioni di Tokyo aggiungiamo quelle delle Filippine, che recentemente ha acquistato 70 F16 e una grande quantità di batterie missilistiche, abbiamo diversi elementi per comprendere come e con quali strumenti gli americani stiano immaginando il contenimento della potenza cinese. Gli Stati Uniti alle prese con i loro problemi domestici e con la ristrutturazione del proprio apparato produttivo non sembrano avere né la forza né la volontà di impegnarsi nel breve e nel medio periodo in un confronto aperto, e al contempo sembra difficile che la settima flotta possa impedire ai cinesi di attraversare i poco meno di 140 km dello stretto di Taiwan, ma di certo gli americani possono rendere molto costosa la volontà cinese di diventare la potenza egemone dell’area. Inoltre, il Giappone, che a differenza di Taipei è legato agli Stati Uniti da un trattato di difesa molto vincolante, ha in sospeso con Pechino il dossier delle Isole Senkaku/Diaoyu che si trovano a ridosso delle acque di Taiwan e per la strategia americana rappresenta il primo vero bastione anti-cinese, che non può essere ignorato in questa fase.

Se è vero che i rapporti di forza non prevedono il vuoto, Pechino sembra voler utilizzare nel teatro dell’Indo-Pacifico la debolezza degli avversari a suo vantaggio, ma non può ignorare che dovrebbe pagare il rischio che comporterebbe governare l’instabilità generata dal suo intervento e l’inevitabile accerchiamento operato dalle altre potenze regionali, che avrebbero alle spalle gli Usa. Un quadro a cui va aggiunto lo scenario afghano, che segue il ritiro delle forze occidentali – l’Afghanistan confina con lo Xinjiang e potrebbe rappresentare un altro polo di attrazione per la potenza cinese – e la crescente ostilità fra India e Cina.

In definitiva, l’ascesa del Dragone, se è stata alimentata dall’instabilità geopolitica di questa fase della pandemia, potrebbe essere arrestata dalla sua incapacità di governarne gli esiti.

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