Il Senato degli Stati Uniti ha recentemente approvato una mozione che prevede la cancellazione di 22 contratti per la vendita di 8 miliardi di dollari di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. Il voto di un gruppetto di senatori Repubblicani, in contrasto con il loro partito, ha permesso l’approvazione della mozione, che non troverà molti ostacoli alla Camera dei Rappresentanti a maggioranza Democratica. Donald Trump ha già dichiarato il suo veto e sembra del tutto improbabile il raggiungimento della maggioranza dei due terzi necessaria per superare il veto presidenziale.
La tragica guerra condotta nello Yemen dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita, e appoggiata dagli Stati Uniti, sta provocando reazioni molto negative non solo tra i Democratici, ma anche in casa Repubblicana. Inoltre, l’assassinio di Jamal Khashoggi, il giornalista ucciso nel consolato saudita di Istanbul, ha provocato una estesa condanna del regime di Riyad. Tanto più che Khashoggi si era trasferito negli Usa e collaborava con il Washington Post.
L’acquiescenza al regime saudita non è di certo iniziata con Trump, ma negli ultimi tempi Barack Obama aveva almeno cercato di bilanciare la situazione con l’accordo sul nucleare con l’Iran. Proprio la cancellazione di questo accordo è forse l’elemento di maggior rottura apportato da Trump, che ha preferito creare contro l’Iran una “Triplice Alleanza” con Arabia Saudita e Israele.
Negli Stati Uniti è ormai iniziata la campagna per le elezioni presidenziali del prossimo anno e la politica estera ne è un elemento importante. A quanto risulta dai sondaggi (per esempio, Ipsos/Reuters), circa la metà degli americani considera l’Iran un pericolo reale, ma solo una minoranza è favorevole a un attacco preventivo: la maggioranza degli intervistati ritiene che gli Usa debbano reagire solo se attaccati. E’ probabile che anche la maggioranza degli iraniani la pensi allo stesso modo e ciò consente ai loro governi di continuare l’attuale politica dell’azzardo.
Anche i sauditi, tuttavia, non vengono visti con particolare cordialità e, magari solo per fini elettorali, non è escluso che venga ripresa una proposta di legge bipartisan del 2016. Se approvata, la legge avrebbe permesso alle famiglie delle vittime dell’attentato dell’11 settembre di citare in giudizio l’Arabia Saudita, dato che 15 dei 19 dirottatori provenivano da quel Paese. Non se ne fece nulla, perché i sauditi minacciarono di ritirare i loro notevoli investimenti negli Stati Uniti.
Il primo a reagire all’assassinio di Khashoggi era stato il governo tedesco, che aveva sospeso le vendite di armi ai sauditi, provocando forti reazioni nell’industria degli armamenti e in vari governi europei, a partire da Francia e Regno Unito. In effetti, molti dei progetti sugli armamenti sono multinazionali e la decisione tedesca rendeva difficile la consegna di apparati bellici coprodotti nei Paesi europei. E’ questo, per esempio, il caso del progetto Eurofighter, un consorzio al quale partecipano Germania, Regno Unito, Spagna e Italia. L’Arabia Saudita è uno dei principali importatori di armi, molto importante per l’industria bellica europea e, ovviamente, statunitense.
Il Regno Unito è uno dei principali fornitori di armi ai sauditi, ma proprio in questi giorni la Corte d’Appello, la seconda istanza giuridica britannica, ha dichiarato illegale la vendita di armi all’Arabia Saudita. I governi che si sono succeduti dal 2016 fino all’attuale sono accusati dalla Corte di non aver verificato la coerenza con il diritto umanitario internazionale delle operazioni della coalizione guidata da Riyad nello Yemen. Tra gli accusati vi sono anche Boris Johnson e Jeremy Hunt, attualmente in corsa per diventare primo ministro dopo la caduta del governo di Theresa May.
Anche il Belgio ha deciso di bloccare la vendita di armi ai sauditi, mentre la Francia continua a sostenere che vendere armi all’Arabia Saudita sia nell’interesse della sicurezza europea. Lo è certamente per la sua autonoma politica estera e, ovviamente, per la sua industria bellica. Una vicenda questa che pone in piena luce quanto l’Europa sia unita solo nella retorica della “comunità europea”.
Il comportamento strumentale dell’Occidente rende ancor più pericoloso il complesso puzzle mediorientale, nel quale il vero detonatore potrebbe essere l’Arabia Saudita, piuttosto che l’Iran. Dopo più di quattro anni di guerra e la conseguente catastrofe umanitaria, lo Yemen rischia di diventare il Vietnam dei sauditi. I loro alleati, come gli Emirati Arabi Uniti o l’Egitto, perseguono obiettivi non necessariamente coincidenti e comunque non sono disposti ad essere “guidati” da Riyad. I tentativi di “modernizzazione” del Paese si stanno rivelando meno facili del previsto anche nel settore economico, dati i costi della recente “guerra del petrolio”. Sotto il profilo della democrazia e dei diritti umani nulla è sostanzialmente cambiato. L’artefice del nuovo corso, il principe ereditario Mohamed bin Salman, è sotto scacco per la vicenda Khashoggi e la sua responsabilità è richiamata anche in un voluminoso rapporto dell’Onu. Né si può dimenticare il sequestro del premier libanese nel 2017 e la conseguente crisi in Libano, risolta peraltro con l’apporto di Hezbollah, sostenuta da Teheran.
Un cambiamento ai vertici del regime saudita non è quindi fuori dalle possibilità, malgrado le purghe effettuate da MBS contro gli eventuali avversari anche all’interno della sterminata famiglia reale. Nell’ottica di questi possibili eventi vanno forse lette anche le dichiarazioni di Trump sulla necessità di sostenere comunque e senza riserve l’attuale regime saudita, ma rimane un forte dubbio sulla validità di una simile strategia.