“Nomen est omen”. In inglese il sostantivo “trump” significa “briscola”, come verbo vale “sconfiggere” e, nella versione “trump up”, diventa sinonimo di inventare. Questi significati del cognome di Donald Trump potrebbero essere messi in qualche connessione con il comportamento del presidente americano, particolarmente in questi ultimi tempi.



L’atteggiamento verso l’Iran sembra quello di chi è sicuro di vincere la partita, come chi ha in mano, appunto, l’asso di briscola. I suoi tweet (cinguettio in inglese, ma “trump”, nello slang britannico, significa “peto”) denotano aggressività più che sicurezza, come quando minaccia di distruggere siti culturali iraniani. Infatti, è stato subito sconfessato dal Segretario alla Difesa, ennesima frattura all’interno dell’Amministrazione, dove emergono anche critiche sulla interpretazione, quantomeno di comodo, delle informazioni fornite dall’intelligence prima dell’attacco a Baghdad.



Altrettanto provocatoria appare la pretesa di liquidare i rapporti istituzionali verso il Congresso con un tweet in cui comunica i suoi progetti di rappresaglia verso l’Iran, ma il bilanciamento dei poteri tra Presidente e Congresso mal si adatta alla comunicazione per “cinguettii”. Inevitabile la reazione dei Democratici, ma questa estemporanea uscita mette in difficoltà anche i Repubblicani, non compatti sulla politica verso l’Iran e poco disposti, è pensabile, a veder trattare il Congresso come una fastidiosa appendice. La Camera, a maggioranza democratica, ha già votato una risoluzione che impegnerebbe il Presidente a non assumere iniziative militari contro l’Iran senza l’approvazione del Congresso. Non è certo che la risoluzione passi al Senato, a maggioranza repubblicana, ma anche dentro il Gop il dibattito è aperto.



Già un paio di anni fa avevamo sottolineato gli atteggiamenti eterodossi di Trump: un po’ da mercato del bestiame, dove vince chi urla di più, un po’ da biscazziere, con bluff e rilanci azzardati, e con un notevole disinteresse per la linearità. Tuttavia, le sue decisioni sembravano sottintendere una sostanziale presa d’atto della fine del bipolarismo Usa-Urss e della conseguente fine del “Secolo Americano”. Alcune prese di posizione trumpiane sembrano però un ricupero della politica “dell’orlo del burrone” dei tempi della Guerra Fredda, propugnata nel 1953 dal segretario di Stato Foster Dulles. Un rischio calcolato che, se mal calcolato, avrebbe portato allora a una catastrofica guerra nucleare. Almeno per il momento, l’Iran non è una potenza nucleare, ma lo potrebbe diventare in tempi non lunghi, grazie alla politica di Trump e agli accordi sull’acquisto di armi con la Corea del Nord, che la bomba nucleare ce l’ha già.

Anche nella situazione attuale, una guerra frontale tra Usa e Iran avrebbe conseguenze pesanti per entrambi i contendenti, ma si possono ritenere inevitabili rappresaglie iraniane, pur con una certa cautela. Il recente lancio di missili contro due basi americane in Iraq sembra essere stato calibrato appositamente per evitare vittime e lo stesso Trump, nel suo successivo discorso, è parso attenuare i toni verso Teheran. Gli ultimi avvenimenti hanno comunque reso incandescente la situazione in tutto il Medio Oriente, dove non tutte le milizie e formazioni presenti si sentono obbligate a rispettare le direttive degli Stati con cui si dichiarano schierate. Sulla scena mediorientale sono numerosi i Gavrilo Princip pronti a scatenare un conflitto globale. Chi sta già traendo nuovo vigore dalla situazione è l’Isis, di cui Soleimani era un deciso avversario, dato che la coalizione a guida Usa ha deciso di sospendere temporaneamente le operazioni contro i jihadisti.  

Come dimostrato dalle recenti manifestazioni popolari, accanto a un diffuso dissenso verso i propri governi, diventa sempre più crescente l’ostilità per gli Stati stranieri che utilizzano per il proprio tornaconto Paesi come l’Iraq, il Libano o la Siria. In particolare, un numero sempre più ampio di cittadini si dimostra non più disposto a pagare i costi di guerre combattute in casa loro per interessi di altri. Sul banco degli imputati si trovano perciò gli Stati Uniti accanto all’Iran, la Russia alla Turchia, l’Arabia Saudita e gli altri Stati del Golfo. Il dramma è che le divisioni interne sono tali che un completo ritiro dei militari stranieri finirebbe forse per peggiorare le cose, né, d’altra parte, è pensabile che le potenze citate smettano di interferire comunque negli affari interni dei vari Stati.

Infine, è prudente tenere d’occhio ciò che succede in Israele, il “Piccolo Satana” degli estremisti iraniani, che nel prossimo marzo affronterà le terze elezioni nel giro di un anno. La conflittualità tra i partiti ha impedito finora di formare un nuovo governo e Benjamin Netanyahu, l’uomo forte sulla scena, è costretto a chiedere l’immunità parlamentare per evitare un processo per corruzione, in cui è coinvolta anche la moglie. Netanyahu ha approvato incondizionatamente l’eliminazione di Soleimani e si è sempre dichiarato non contrario ad azioni belliche contro l’Iran, che ha anche portato a termine in Siria. Israele, inoltre, dispone di armi nucleari.

In questi giorni, Trump ha ribadito che gli Stati Uniti non sono interessati al petrolio mediorientale, perché ormai diventati autosufficienti, e poco più di un anno fa ha dichiarato che la ragione principale della presenza degli Usa in Medio Oriente è Israele. Non è forse irrealistico aggiungere: l’Israele di Netanyahu. E ricordare che spesso le guerre sono, purtroppo, un modo di risolvere i problemi di politica interna.