La decisione su quale parte prendere nello scontro sempre più deciso tra Stati Uniti e Cina non riguarda solo l’Italia, ma l’Europa nel suo insieme. Una scelta che coinvolge anche il “terzo contendente”, la Russia, la cui apparente scelta cinese sembra lungi dall’essere definitiva.

Sembrerebbe una scelta non difficile, dato che la Cina è governata da un apparato dittatoriale che fonde efficacemente i sistemi coercitivi del modello comunista e quelli sfruttatori dei peggiori sistemi capitalisti. Tuttavia, alcuni aspetti della Cina non sono trascurabili, a partire da una popolazione che rappresenta il 18% di quella mondiale, cioè tre volte quella dell’Unione europea e quattro volte quella degli Stati Uniti.



Accanto alla potenza demografica, la Cina può vantare un notevole sviluppo tecnologico, una forte capacità di espansione e penetrazione economica, una politica estera che unisce diplomazia a spregiudicatezza e aggressività, per finire con una temibile potenza bellica e nucleare.

Questa posizione è stata costruita dalla Cina nel corso degli ultimi decenni con il sostanziale beneplacito, e per certi versi con il sostegno, del mondo occidentale, in particolare degli Stati Uniti. Ora risulta più difficile l’opera di contenimento, come dimostrano la drammatica situazione di Hong Kong e la sempre più concreta minaccia verso Taiwan.



Leonardo Tirabassi descrive molto bene la strategia di Pechino e le armi che può impiegare contro Stati Uniti e altri avversari del suo progetto egemonico. La guerra vera e propria è solo l’ultima delle opzioni, pur se non scartata a priori.

Sembrerebbe, quindi, ovvia la scelta di Italia ed Europa per un rinnovo più stretto dell’alleanza con gli Stati Uniti. Tuttavia, la questione non si presenta così semplice, perché anche gli Stati Uniti sono cambiati e non solo per i modi e le politiche di Donald Trump.

Anche qui occorre risalire a due decenni fa, al trauma dell’11 settembre 2001 e alla conseguente invasione dell’Iraq, altro doloroso insuccesso con l’Afghanistan e le avventure in Siria e Libia. Avvenimenti che sembrano aver posto fine al sogno del “Secolo Americano”, lasciando dietro di sé “guerre senza fine”, che lo stesso Trump ha dichiarato di voler cessare, così come prima di lui aveva affermato Barack Obama.  A quanto pare, senza molti esiti concreti.



Le difficoltà degli Stati Uniti si manifestano pesantemente anche al loro interno, come nelle attuali diffuse manifestazioni in molte città del Paese, “un’ondata di malessere esistenziale”, come dice Riro Maniscalco nel descrivere ciò che sta avvenendo a Minneapolis e altrove. Un malessere che si trasmette alla campagna presidenziale in atto, forse una delle più virulente nella storia degli States.

Donald Trump è incorso in due procedimenti di impeachment, il primo con l’accusa di collusione con il nemico russo, il secondo per abuso di potere e ostruzione del Congresso. Il primo non è andato in porto, ma i suoi strascichi stanno ancora avvelenando la politica americana, il secondo, bloccato dalla maggioranza Repubblicana in Senato, ha diviso ulteriormente il Paese. Lanciando, per di più, ombre anche sul candidato Democratico, l’ex vicepresidente Joe Biden, per presunte interferenze a favore di un incarico a suo figlio Hunter in una società di un oligarca ucraino. Biden è anche accusato da una sua ex assistente di molestie sessuali, che risalirebbero peraltro a quasi trent’anni fa, ma che lo accomunano a Trump, accusato da una giornalista di uno stupro avvenuto più di vent’anni fa.

Biden è per il momento in testa nei sondaggi, ma non è facile capire quale sarebbe la sua politica se fosse eletto. Sul piano interno dovrà tener conto della sinistra Democratica, che con Bernie Sanders ed Elizabeth Warren è diventata molto importante nel partito. Più difficile capire quale potrebbe essere l’influenza sulla politica estera di Biden, anche alla luce della nuova sfida rappresentata dalla Cina. Nel frattempo, non è da sottovalutare il rischio di iniziative di Trump di per sé pericolose ma reputate utili in vista delle elezioni di novembre.

Paradossalmente, non avendo i problemi personali di Trump con Mosca, Biden potrebbe condurre una politica più aperta nei confronti della Russia, nel tentativo di sottrarla al dannoso abbraccio cinese. Con Obama e la Clinton, i rapporti con la Russia sono diventati sempre più tesi, portando per esempio la Nato a ridefinirla come avversario principale. Ciò malgrado gli accordi di partenariato degli anni ‘90 e il patto di consultazione firmato con Mosca nel 2002 contro il terrorismo. Eppure, ora la principale minaccia per Washington viene da Pechino.

Venendo alla Russia, Putin ha conseguito vari successi in politica estera, per esempio in Medio Oriente, ma la situazione all’interno del Paese è tutt’altro che tranquilla. Da qui il consueto richiamo a una nazionalistica celebrazione di un passato considerato glorioso, come racconta Giovanna Parravicini, anche a costo di rivalutare implicitamente anche il nefasto e iniquo periodo sovietico. Un indice, comunque, di scollamento dal Paese reale e dai suoi concreti bisogni, ai quali ci si illude di rispondere con una “vetrina ideologica”. Purtroppo, non una prerogativa esclusiva della Russia di Putin.

In conclusione, qualche anno fa la scelta per l’Italia e l’Europa sarebbe stata decisamente più semplice e sarebbe importante capire perché questa evoluzione negativa.