Donald Trump minaccia di “distruggere l’Iran”, non il regime islamista, ma proprio l’intero paese. È da settimane che assistiamo a una serie di attacchi a parole da parte del presidente americano, mentre nella zona del Golfo la situazione si fa sempre più calda: sabotaggi a petroliere saudite, lancio di razzi nella zona dell’ambasciata americana a Baghdad, sabotaggi a centrali petrolifere saudite. Di tutto questo gli Usa e l’Arabia accusano miliziani yemeniti armati e supportati da Teheran. Una escalation vera e propria che sembra avere un solo obbiettivo: attaccare l’Iran. Secondo Filippo Landi, già inviato di Tg1 Esteri nell’area mediorientale, gli Stati Uniti hanno già usato in passato l’arma della menzogna per poter giustificare azioni di guerra, “in questo caso si sentono le spalle coperte perché hanno due sponsor di primo livello per un possibile attacco, Israele e Arabia Saudita”.



Il livello delle minacce di Trump nei confronti dell’Iran si alza ogni giorno di più: si tratta di minacce concrete che possono sfociare nella guerra vera e propria?

La storia ci viene in aiuto. Bisogna pensare a cosa accadde nell’agosto 1964 nel Golfo del Tonchino in Vietnam. Gli americani denunciarono un attacco di torpediniere nordvietnamite e questo permise all’allora presidente Lyndon Johnson di chiedere al Congresso il via ai più massicci bombardamenti americani della storia sul Nord Vietnam. Si scoprì dopo che quell’attacco del 4 agosto non ci fu mai. Questo fa intuire come nella storia della diplomazia e della politica estera di Washington si è già usata l’arma anche falsa degli attacchi per giustificare poi una “risposta” americana.



Usa e Arabia saudita accusano le milizie yemenite armate da Teheran di essere dietro ai missili lanciati su Baghdad e al sabotaggio di alcune centrali di estrazione del petrolio saudite: è questa l’arma di Trump?

Non solo la storia, ma anche la letteratura ci viene in soccorso, quando un miliardario americano, Ross Perot, nel 1978, prima della rivoluzione islamica  organizzò una missione militare in Iran per liberare due suoi dipendenti. Cosa ci dicono questi elementi? Che gli Usa, quando si trovano di fronte all’Iran, e in certi casi lo hanno già fatto, usano delle vie molto spicce che saltano l’aspetto diplomatico.



La situazione nel Golfo è molto calda, con Qatar e sauditi che già si combattono in Libia. È questa la zona oggi più a rischio nel mondo?

Sicuramente Trump fa la voce grossa perché ha due grandi sponsor per un attacco, Israele ovviamente e Arabia Saudita.

Perché?

Israele perché ha preso atto di non aver distrutto le milizie Hezbollah in Libano, per cui ritiene che l’unica strada sia colpire chi sostiene quelle milizie. L’Arabia Saudita per un confronto decennale con l’Iran sul modo di concepire il potere nella regione. I due approcci sono completamente opposti soprattutto nelle rispettive società civili. C’è un segnale che può sembrare paradossale e che invece ci dice che il conflitto è più vicino.

Quale?

I prossimi 25 e 26 giugno nella capitale del Bahrain si riuniscono su richiesta Usa i ministri delle finanze e i leader di potenti multinazionali per lanciare il cosiddetto grande piano economico che dovrebbe portare alla pace tra Israele e palestinesi. Sembra però che questa operazione, più economica che politica, in qualche modo serva a contenere nel mondo mediorientale, soprattutto in quello palestinese, una reazione in presenza di un attacco all’Iran.

Un quadro inquietante. C’è qualche personalità nell’amministrazione americana in grado di fermare questa deriva guerrafondaia?

Per fare un paragone possiamo riferirci alla situazione di quando Netanyahu negli anni scorsi dichiarò la necessità di un attacco all’Iran. Furono i suoi militari a ricondurlo a un atteggiamento più cauto. È probabile che anche in campo americano siano non i politici ma i militari a far presente che un attacco anche se soltanto aereo porti enormi conseguenze che dureranno per decenni. È proprio la parte militare quella che potrebbe porre dei paletti, anche se non è detto che questo avverrà.