L’attacco degli Houthi yemeniti agli impianti petroliferi sauditi rappresenta, nella già complessa situazione mediorientale, un critico punto di svolta sotto vari aspetti.

In primo luogo, questo micidiale attacco ha messo in evidenza la posizione critica  dell’Arabia Saudita nella disastrosa guerra nello Yemen. Nonostante la disparità di forze, i ribelli Houthi non solo sono riusciti a resistere alla coalizione internazionale guidata da Arabia Saudita, Emirati e Stati Uniti, ma hanno portato i loro attacchi direttamente sul territorio saudita. Quello contro gli impianti petroliferi è solo l’ultimo di una serie di attacchi, anche se meno rilevanti, e rappresenta per il regime saudita è un pesante smacco sotto il profilo militare, politico ed economico.



Riyadh ha subito accusato l’Iran di aver condotto direttamente l’attacco, affermando che gli Houthi non possono essere in grado di effettuare simili azioni. È difficile pensare che Teheran non abbia partecipato all’operazione, ma anche se missili e droni fossero partiti addirittura dall’Iran, rimane evidente la palese vulnerabilità della potente Arabia.



Una vulnerabilità che ha notevoli risvolti economici, se si pensa che l’attacco ha bloccato l’immissione sul mercato del 50% del petrolio saudita, cioè del 5% della produzione mondiale. I sauditi sono riusciti a riportare in breve tempo la produzione alla normalità, ma non si sono potute evitare forti turbolenze nel prezzo del petrolio. Uno scenario non proprio positivo per la prevista quotazione in Borsa dell’Aramco, la compagnia petrolifera saudita, quotazione divenuta rilevante per le casse dello Stato, provate dalla discesa del prezzo del petrolio e dalle crescenti spese militari. La possibilità, tutt’altro che remota, che simili attacchi possano essere ripetuti è un grave colpo all’immagine, già un po’ offuscata, dell’Arabia Saudita come domina del mercato petrolifero.



Donald Trump è intervenuto immediatamente, con scontate accuse all’Iran e mettendo a disposizione le riserve petrolifere degli Stati Uniti per sopperire alla mancanza del petrolio saudita. Ha così messo in evidenza che gli Stati Uniti sono diventati esportatori di petrolio, concorrenti potenziali dell’Arabia Saudita. Una concorrenza per il momento solo teorica, visti i buoni affari di Washington con la vendita di armamenti a Riyadh. Tuttavia, se l’anno prossimo entrasse un Democratico alla Casa Bianca non si può escludere una ripresa della politica verso l’Iran che fu di Obama, con una possibile riduzione dell’embargo sulle esportazioni di petrolio iraniano. E questa sarebbe una vera e dannosa concorrenza.

Sul piano politico, proprio in Yemen è avvenuto un pericoloso confronto con un importante alleato come gli Emirati Arabi Uniti, che hanno sostenuto i separatisti di Aden contro i governativi diretti dai sauditi. Il separatismo nello Yemen del Sud e il controllo del Nord da parte degli Houthi rendono sempre più difficoltosa la realizzazione del progetto di uno Yemen unificato sotto un governo sponsorizzato da Riyadh. Una spartizione del Paese che riporti alla situazione precedente al 1990, con due Stati al Nord e al Sud, sembra invece rientrare nella strategia di Abu Dhabi. Uno Yemen del Sud “riconoscente” per l’appoggio prestato potrebbe essere molto utile agli Emirati, già attivi sul lato africano, per controllare la via marittima che conduce al Canale di Suez attraverso lo stretto di Bab el Mandeb.

Anche da Washington possono venire problemi, e non solo per un possibile cambio di inquilino alla Casa Bianca. Trump ha bloccato con il suo veto le iniziative del Congresso dirette a condannare le modalità della guerra nello Yemen e a riconsiderare la vendita di armi ai sauditi. Inoltre, si è schierato incondizionatamente a fianco di Riyadh nel brutto affare dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, in contrasto con la diffusa opinione pubblica americana ed europea. Ma Trump ha di fronte una difficile campagna elettorale, con i Democratici che hanno ripreso a parlare di impeachment, e deve valutare attentamente le proprie mosse alla luce di ciò che pensa l’elettorato statunitense.

Pur dicendo di non volere la guerra, Trump si è dichiarato pronto a reagire militarmente contro l’Iran, ma così finisce per favorire le fazioni estremiste iraniane, contrarie alle caute aperture che i moderati stavano portando avanti. Si allontana così l’incontro con Rouhani, che sembrava invece trovare una conferma a Washington nel licenziamento del “falco” Bolton. La minaccia di una guerra ha immediatamente provocato reazioni negative negli Stati Uniti, a partire da uno dei possibili candidati Democratici, Bernie Sanders, che ha fatto presente che una simile guerra può essere dichiarata solo dal Congresso.

Anche Barack Obama attaccò la Libia senza autorizzazione del Congresso, ma una guerra contro l’Iran sarebbe molto più gravosa per gli Stati Uniti e non parrebbe essere un buon argomento per vincere le elezioni.