Mezza Italia è tornata in zona gialla e il coronavirus sembra un po’ allentare la morsa, visto che in una settimana i casi sono calati del 34%. Ma non si può abbassare la guardia, soprattutto in vista della campagna vaccinale, anche perché “20mila casi al giorno sono ancora troppi”, come afferma Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità. Anzi, secondo Walter Ricciardi, consigliere del ministero della Salute e docente di Igiene all’Università Cattolica di Roma, la strada è tutt’altro che in discesa: “Siamo ancora nel pieno della seconda ondata di Sars-CoV-2, dicembre e gennaio saranno terribili per due motivi: per i problemi nell’accesso ai servizi e per le tante differenze a livello ragionale”. Ma se dopo un primo lockdown generale in primavera anche la semi-serrata in vista del Natale non ci risparmierà una nuova impennata dei contagi, a che servono le misure adottate dal governo Conte? Come si può interrompere la catena dei contagi? Dovremo aspettare il vaccino per estinguere davvero l’epidemia? Il Sars-Cov-2 potrebbe andarsene di colpo come il virus influenzale della Spagnola un secolo fa? Lo abbiamo chiesto a Paolo Bonanni, docente di Igiene generale e applicata all’Università di Firenze, uno dei massimi ricercatori nel campo dell’epidemiologia, della prevenzione delle malattie infettive e delle malattie invasive batteriche, già componente della Commissione nazionale per le vaccinazioni del ministero della Salute e consulente per alcuni dei maggiori centri europei che si occupano di prevenzione.



Come si mette sotto controllo il Covid? Il tracciamento è fondamentale?

Il tracciamento è fondamentale finché si riesce a fare.

Perché da noi è fallito?

Perché i numeri sono diventati troppo grossi. Un conto è controllare 300 persone, un altro è controllarne 30mila. Nel picco raggiunto un paio di settimane fa avevamo identificato 30mila persone circa, un numero che non coincide certo con tutti i positivi presenti in Italia. Se ciascuno di questi 30mila soggetti ha dai 5 ai 10 contatti come minimo, vuol dire dover andar dietro a 150mila-300mila persone. Come si fa?



La sua risposta?

Rispondo da igienista: negli ultimi vent’anni abbiamo letteralmente decapitato la medicina territoriale. La sanità in Italia è stata tagliata in modo brutale, soprattutto i servizi che venivano considerati non essenziali. Le cure in ospedale non potevano essere tagliate troppo, invece i servizi territoriali, i dipartimenti di prevenzione e le cure primarie, di cui si avvertiva meno il bisogno, non sono state per nulla risparmiate. Oggi paghiamo questa miope politica di tagli, perseguita da tutti i governi che si sono succeduti. Così, con ospedali intasati – anche da persone arrivate in pronto soccorso in codice verde, solo per l’ansia, generata dalla pandemia, di avere sintomi legati al Covid – non è stato possibile garantire le cure a tutti.



Cosa dovremmo fare?

Dovremmo ripristinare una forte medicina territoriale capace di fare da sentinella e da filtro, così da ospedalizzare solo i casi effettivamente gravi.

Non bastano però settimane o mesi, vero?

Esatto. Prenda il caso della mia regione, la Toscana: per decisioni ministeriali, per tanti anni abbiamo avuto un drammatico sottodimensionamento di specialisti in igiene pubblica, dieci borse di studio all’anno in tutto tra Firenze, Pisa e Siena in una regione da 3,5 milioni di abitanti. Una goccia nel mare. Poi, qui a Firenze, sono saliti a 5, a 7 e quest’anno a 19. Ma per formare queste professionalità serve tempo, saranno pronte solo fra quattro anni.       

Perché in Italia la letalità da Covid resta alta?

Contano diversi fattori, a partire dal fatto che abbiamo una popolazione più anziana che altrove. Occorre dire, tuttavia, che pur facendo oggi tanti tamponi, è molto probabile che il numero reale di casi positivi sia molto superiore a quelli effettivamente rintracciati. Il denominatore su cui si calcola la letalità potrebbe quindi essere più ampio.

Divieto di spostamento nei comuni e tra comuni e regioni, chiusura bar e ristoranti alle 18, coprifuoco alle 22. Sono misure efficaci? Hanno una loro ratio scientifica valida?

La ratio di queste misure sta nel fatto che siamo una popolazione un po’ dura a capire.

Che cosa?

Dobbiamo mettere in atto le tre regole basilari: indossare la mascherina, rispettare il distanziamento di due metri e igienizzare spesso le mani. Se tutti portassimo sempre – e dico “sempre” a carattere cubitali – la mascherina su naso e bocca tutte le volte che incrociamo altre persone, al bar, in un ristorante o in qualsiasi altro luogo, tutte le misure adottate dal governo con i Dpcm potrebbero essere tralasciate completamente né avremmo picchi e ondate della pandemia. La mascherina non è un optional, eppure non si riesce a farlo capire a tutti: accanto a un 85% di popolazione che rispetta l’obbligo della mascherina, abbiamo un 15% che non lo fa e questa diseducazione verso forme di protezione di sé e degli altri rovina la vita a tutti. E pure all’economia italiana: baristi, ristoratori e operatori del turismo avrebbero tutti i diritti di chiedere i danni a chi non porta la mascherina. E non serve a nulla indossarla sotto al mento: deve coprire naso e bocca, le due parti del sistema respiratorio da cui può passare il virus. Ci vogliono più controlli e sanzioni.

Un recente articolo apparso su Lancet smentisce la tesi della scuola sicura. Che ne pensa?

Premesso che luoghi sicuri al mille per mille non esistono e che sul tema ci sono opinioni divergenti, io credo che le scuole siano sicure. I problemi insorgono in ciò che accade, prima e dopo, fuori dalle scuole: trasporti pubblici affollati, assembramenti di studenti delle superiori con mascherine abbassate prima dell’ingresso e dopo l’ultima campanella.

Il nodo più intricato da sciogliere sembra infatti quello dei trasporti pubblici: c’è una ricetta efficace?

La solita: indossare tutti – e ripeto tutti – la mascherina. Eviterei quelle di stoffa e lavabili, che sono inutili, e rispetto alle chirurgiche consiglierei le FFP2: anche in caso di presenza di persone che non indossano come si deve la mascherina, le FFP2 garantiscono una protezione in entrata e in uscita pari al 90%. Chiaro, poi, che sarebbe anche opportuno riuscire a evitare gli eccessivi affollamenti, ma le aziende locali dei trasporti hanno una dotazione di mezzi tale da poter offrire un aumento rilevante o un raddoppio delle corse?

Come mai il Sars-Cov-2 è diventato pandemia in poco tempo? Che cos’ha di diverso dagli altri virus che circolano?

Di diverso ha il fatto che è un virus del tutto nuovo per la specie umana. Conviviamo da millenni con virus già circolanti da tempo, come quello dell’influenza, perché si è creata una quota di persone immunizzate. Quando però compare un virus con caratteristiche inedite, non abbiamo difese. In più questo coronavirus, proveniente da un serbatoio animale, ha anche la capacità di trasmettersi facilmente da persona a persona. Ecco perché diventa pandemia: il campo delle possibili vittime è sterminato, in pratica è tutta la specie umana.

È vero che la dispersione del Covid non è uniforme? Ci sono cioè soggetti positivi che neppure contagiano e ci sono i cosiddetti super-spreader che possono contagiare anche decine, se non centinaia, di persone. Ce ne sono tanti?

Quanti super-diffusori ci siano in giro è difficile da dire, visto che neppure sappiamo quanti siano gli infetti.

Come individuare i super-spreader?

Bisognerebbe valutare dopo quanti cicli di replicazione del virus uno diventa positivo.

In che senso?

Il test dei tamponi viene eseguito prelevando secrezioni da naso e faringe, che vengono portate in laboratorio, dove si amplifica l’Rna del virus eventualmente presente nel campione. Se la positività viene riscontrata dopo uno, due o tre cicli di replicazione, significa che di Rna in quel campione ce n’era tanto, il soggetto è potenzialmente un super-spreader in grado di contagiare molte persone; se invece mi servono una ventina-trentina di moltiplicazioni per vederlo, vuol dire che il virus era presente in quantità minime. Ma questo procedimento non si può eseguire su tutti i test. Dovrebbe essere oggetto di uno studio sistematico, impossibile da condurre sull’intera popolazione nel momento in cui è in atto un’emergenza pandemica.

Le pandemie si possono prevenire?

Si può prevenirne la diffusione, non l’insorgenza. I virus si ricombinano continuamente tra di loro in natura e in questo caotico traffico di geni, Rna e Dna, ogni tanto, come nel SuperEnalotto, esce la combinazione, purtroppo per noi, vincente. Non possiamo impedire le pandemie, perché dovremmo controllare miliardi di animali. Si può invece fare qualcosa per arginarle con una sanità pubblica ben organizzata.

Secondo lei, il Sars-Cov-2 ha origini naturali o può essere scappato da un laboratorio?

Il profilo genetico del virus porta a una sua origine naturale. Il serbatoio animale da cui proviene è quello dei pipistrelli, una specie molto numerosa che ha imparato a convivere con tanti virus. I pipistrelli sono una sorta di laboratorio biologico in cui avvengono con grande facilità questi scambi genetici fra i virus. 

Lei ricorda spesso che più che guardare al futuro bisogna imparare dal passato, soprattutto dalla Spagnola, che scomparve improvvisamente da sola. Possiamo sperarlo per il Covid-19?

La Spagnola si è spenta dopo due anni e mezzo circa ma solo dopo aver ucciso tra i 20 e i 40 milioni di persone. Avendola lasciata circolare liberamente, la popolazione era arrivata per via naturale alla cosiddetta immunità di gregge. Ma non è questo il modo per liberarci della pandemia. Dobbiamo ottenere lo stesso risultato con i vaccini: raggiungere l’immunità di gregge senza infettarci e ammalarci.

A tal proposito, i vaccini saranno davvero l’Armageddon di questo coronavirus? E chi vaccinare per primi?

Prima il personale sanitario, gli anziani, i soggetti affetti da patologie croniche. Poi, le persone che svolgono compiti sociali essenziali, dai volontari della Protezione civile agli insegnanti. E via via tutti gli altri.

Non varrebbe la pena invece partire vaccinando i giovani, che sono a stragrande maggioranza asintomatici, hanno una vita sociale più intensa e possibilità maggiori di contagiare?

Non sono d’accordo, perché non sappiamo a priori quanto il vaccino impatta sulla malattia o sulla sua trasmissione. I vaccini sono oggi più focalizzati sulla parte clinica, la loro efficacia è contro la malattia e le sue complicanze. Quanto invece potranno aiutare a prevenire la trasmissione dei contagi, lo vedremo solo nel corso dell’attuazione della campagna vaccinale.

Sul fronte dell’informazione arrivano pochi numeri e in gran parte decontestualizzati. Come si può informare correttamente sull’andamento dell’epidemia?

Non bisogna assolutamente focalizzarsi sul numero di nuovi positivi. Il primo dato da evidenziare è il numero dei positivi in rapporto ai tamponi eseguiti, perché se questo rapporto scende sotto il 10% vuol dire che l’andamento dell’epidemia è sotto controllo. Altrettanto importante è il valore dell’indice Rt: sotto 1 vuol dire che dieci positivi infettano altre otto persone, otto ne contagiano sei e sei ne infettano quattro, così via via si va verso non l’estinzione della diffusione dell’agente infettivo, ma verso una progressiva fase di curva discendente. Quanto al calo dei decessi, ci vorrà ancora tempo, prima devono diminuire i contagiati.

(Marco Biscella)