“Il virus è cieco, sordo e muto, ma sa benissimo cosa vuole fare: saltare da un organismo all’altro semplicemente per espandere la sua capacità di contagio. In questo senso è lucido e implacabile”. Eppure non dobbiamo spaventarci: “Tutto dipende dai nostri comportamenti: se manteniamo le condizioni attuali, una terza ondata non ci sarà, ma dobbiamo mantenerle almeno per un paio di mesi”. A preoccuparci, secondo Roberto Battiston, professore di Fisica sperimentale dell’Università di Trento e già presidente dell’Agenzia spaziale italiana, è piuttosto una certa incapacità a leggere i modelli previsionali con tempestività. E soprattutto resta un nodo gordiano da sciogliere: la riapertura in sicurezza delle scuole superiori, perché a settembre proprio dalla scuola è venuta la fiammata che ha riacceso i focolai dell’infezione. Infezione che si avvicina al picco con 820mila contagiati attivi.
Siamo nel pieno di una seconda ondata. Perché il virus dopo l’estate è andato via via fuori controllo?
A settembre avevamo 50mila persone infette registrate, non poche centinaia come in febbraio, quindi il virus circolava molto, ma con mascherine, distanziamento e igiene delle mani le cose sembravano giusto giusto funzionare.
Poi cosa è successo?
La scuola ha riaperto con tutte le attività e i contatti che le girano attorno. Lì per lì non si è registrato alcuno scossone, ma accanto a molti asintomatici e paucisintomatici hanno iniziato a crescere, giorno dopo giorno ma in modo estremamente rapido, gli infetti. Abbiamo osservato un andamento chiaramente esponenziale, che faceva presagire come il sistema sanitario sarebbe andato in tilt entro fine mese.
In quei giorni però sulla scuola arrivavano rassicurazioni…
La partenza a rilento più le elezioni del 20 settembre hanno fatto sì che per la massa degli studenti l’apertura sia di fatto avvenuta nei giorni precedenti al 24 settembre. Solo una settimana dopo, il 2 ottobre, l’epidemia è partita rapida, pur con differenziazioni tra le varie regioni.
Morale?
Dal ministero dell’Istruzione non abbiamo i dati – forniti sì all’Iss, ma mai discussi pubblicamente – su quel che sta accadendo nelle scuole a livello di contagi. Però dal 14 al 24 settembre si sono messe in moto milioni di persone, tra studenti, famiglie, insegnanti: ecco la causa scatenante. Peccato che a ciò che è intorno alla scuola non ci abbia pensato nessuno. O meglio, ci hanno pensato a parole, dicendo quel che occorreva fare – ingressi scaglionati, potenziamento dei trasporti eccetera –, ma nessuno ha poi provveduto nei fatti a cambiare gli orari o i trasporti pubblici. Ci servono strumenti per capire questi macro-sistemi, non possiamo sempre arrivare impreparati con 3-4 settimane di ritardo quando gli stessi indicatori, già ai primi di ottobre, raccontavano bene quel che sarebbe successo. Al virus è bastato che si siano messe in moto una trentina di milioni di persone, studenti, insegnanti, famiglie, per fare il salto e scatenare un’ondata esponenziale.
I Dpcm, seppur tardivi, hanno prodotto effetti mitigatori?
Dopo ogni Dpcm l’indice Rt ha sempre rallentato fino a iniziare a scendere. Anche l’ultimo Dpcm, che ha introdotto un para-lockdown sufficientemente stretto, sta facendo calare l’Rt, tanto che entro la settimana arriveremo sotto Rt=1 a livello nazionale. Ma ricordiamoci che avremo comunque 820mila contagi attivi, ben più dei 110mila conteggiati al massimo nel lockdown scorso. E 820mila contagi registrati significano un numero di infetti in giro per il paese due o tre volte superiore. Il virus è ancora attivissimo.
Tra le varie misure adottate dai diversi Dpcm ce n’è una particolarmente efficace?
La chiusura dei licei è secondo me la più importante, più della chiusura dei ristoranti o del blocco dei trasferimenti interregionali, perché la popolazione dei 15-19enni, a cui tra l’altro il Covid non lascia segni gravi, si muove molto autonomamente sui mezzi pubblici, ha un’intensa autonomia sociale ed è, troppo spesso, poco rispettosa delle restrizioni.
In questa pandemia siamo quotidianamente sommersi dai numeri. Nel bailamme quali sono gli indicatori da guardare per cercare di capire come si muove il virus?
Un’infezione pandemica segue regole ben precise nelle sue modalità di contagio. In laboratorio queste regole sono seguite alla perfezione, ma quando la pandemia si diffonde in una società complessa, in condizioni mutevoli di rapporti tra i vari soggetti e in contesti in cui aspetti culturali, abitudini e risorse sanitarie sono diversi, le regole del virus sono molto più difficili da seguire, proprio per la gran varietà delle casistiche presenti.
Sta dicendo che queste regole potrebbero venire meno?
No, le leggi della pandemia non vengono meno: sto dicendo che per poter estrarre informazioni dai numeri raccolti occorre fare attenzione al contesto in cui l’epidemia si sta sviluppando. Detto questo, è giusto mettere dei paletti.
Quali?
Il virus è cieco, sordo e muto, ma sa benissimo cosa vuole fare: saltare da un organismo all’altro semplicemente per espandere la sua capacità di contagio. In questo senso è lucido e implacabile. Quindi, tutte le condizioni che permettono questo meccanismo verranno sfruttate dal virus, nessuna esclusa.
Quali condizioni ne “favoriscono” la strategia infettiva?
Noi sappiamo che, per poter contagiare, un soggetto infetto ma contagioso – uno stato che dura solitamente 3-6 giorni, talvolta qualche giorno di più – deve entrare in contatto con un individuo sano a una distanza inferiore a un metro, senza meccanismi di protezione e per almeno 15-20 minuti, fattori che rendono molto probabile la trasmissione di una carica virale sufficientemente alta. Questo è il “motore” alla base dell’infezione. Moltiplicando il numero di infetti contagiosi e di soggetti sani che vi entrano in contatto si può calcolare esattamente cosa accadrà da quel momento nei prossimi 7, 15, 20 giorni o un mese.
Il meccanismo prevede delle variabili?
Sì. Entrano in gioco l’intensità e la durata dei rapporti. Mascherina, distanziamento, igiene delle mani, e poi lockdown, coprifuoco, zone rosse, altro non sono che varie modalità per tenere il più possibile distanti un potenziale infetto contagioso con un potenziale individuo sano. Se tutto questo fosse perfettamente definito, ci sono formule, inventate negli anni Venti, che spiegano come il contagio si comporti in un determinato modo: se Rt è maggiore di 1, il contagio tende a espandersi in modo crescente e poi esponenziale, andando fuori controllo; se Rt è al di sotto di 1, l’epidemia si spegne da sola. È da più di un secolo che teoricamente si possono calcolare con grande precisione i comportamenti delle malattie infettive.
Questo in teoria. Ma nella realtà è mai successo anche con il Covid-19?
Queste condizioni si sono verificate prima e durante il lockdown, che da questo punto di vista è un esempio da manuale. A metà febbraio c’erano poche centinaia di infetti in giro per l’Italia, la maggior parte sconosciuti, ma altamente contagiosi, e non c’erano forme di protezione perché ancora non si sapeva quello che stava accadendo. In questa fase i contagi si sono diffusi rapidamente, è stato come buttare un fiammifero sulla benzina: in poche settimane l’indice Rt ha superato quota 4, e già il 7 marzo si è dovuto attuare il lockdown, minimizzando i rapporti sociali. Il virus è stato immediatamente bloccato: l’indice Rt si è dimezzato, poi è sceso a 1,5 e a metà aprile era sotto 1.
Dove si è inceppato il meccanismo?
Purtroppo questi dati non vengono mai usati nella comunicazione al pubblico, visto che vengono comunicati solo i dati giornalieri e quando va bene la curva dell’ultima settimana. Ma sono informazioni del tutto scollegate una dall’altra, senza un contesto metodologico chiaro. Dire che la situazione migliora perché il numero di positivi oggi è più basso di ieri è completamente falso: l’andamento giornaliero non ci dice nulla di quel che sta succedendo.
Perché?
Se avessimo dati perfetti, forse sì, ma siccome siamo sottoposti a fluttuazioni nel rilascio dei dati, questo rumore di fondo va a inficiarne la precisione, mentre può essere reso trascurabile quando si fa uno studio sulle settimane precedenti per analizzare ciò che accadrà nelle due successive.
Lei sta portando avanti proprio questo tipo di studio. Che cosa dobbiamo aspettarci nel breve?
Semplicemente studiando l’andamento di alcune curve, quindici giorni fa ho detto che il 27 novembre saremmo arrivati al picco degli infetti. E ci stiamo arrivando, giorno più, giorno meno. Guardando indietro di due-tre settimane, la retrospettiva racconta cosa accadrà nei prossimi 7-15 giorni. È una metodologia elementare, se consideriamo che sono al lavoro leggi ben precise.
Perché, secondo lei, non vengono comunicati questi dati al pubblico?
Forse perché è più facile dare informazioni generiche, che nessuno può contestare, ma che non servono a nulla.
I modelli stocastici sono i più efficaci per capire come si diffonde il virus? E perché?
I modelli stocastici introducono dei dettagli sulla disuniformità delle interazioni fra le persone all’interno della società. Ciascuno di noi ha una profilatura diversa dagli altri e nella società esiste una molteplicità di generazioni, professioni, legami, mobilità… Se con il modello più semplice si coglie l’andamento base dell’epidemia, con i modelli più sofisticati ci si può avventurare nel fare analisi o previsioni più dettagliate.
Di cosa abbiamo bisogno, allora, in questo momento in Italia?
Abbiamo bisogno di strumenti elementari, anche approssimativi e non ottimali, per capire le macro-tendenze dell’epidemia.
Per esempio?
Guardiamo l’indice Rt. Tutte le volte che si verifica un fenomeno che influenza milioni di persone, nel giro di 7-10 giorni l’Rt cambia. Nel periodo 6-16 agosto l’Rt non è cambiato, nonostante milioni di persone sulle spiagge, ma poi dopo Ferragosto è bruscamente aumentato in soli tre giorni, anche se con evidenti variazioni tra le regioni più o meno attrattive come luoghi di vacanza. Questo salto si è fermato dopo una settimana, finché non si è visto il plateau. Settembre è iniziato con un Rt relativamente alto e – cosa incredibilmente interessante ma poco sottolineata – per tutto il mese Rt è sceso lentamente, fino a 1,2. In un contesto, è giusto sottolinearlo, in cui si riattivavano fabbriche, professioni bar, ristoranti.
Come se lo spiega?
Il messaggio è chiaro: si può convivere con un’economia attiva anche se il virus è acceso purché si seguano delle norme di distanziamento.
Non è calcolabile, tutto dipenderà dai nostri comportamenti. Se manteniamo le condizioni attuali, non ci sarà, ma dobbiamo mantenerle almeno per un paio di mesi. Se incominciamo, avendo visto che l’Rt va giù, ad aprire troppo presto infrastrutture in modo non protetto, potrebbe arrivare a gennaio. E con 820mila contagi attivi ogni errore lo pagheremo carissimo.
Presupponendo che sarà molto difficile avere una vaccinazione di massa a inizio 2021, come dovremo affrontare questa terza ondata? Con il tracciamento? Ma visto il fallimento del testing & tracing, su quali basi va rilanciato?
Il tracciamento non è fallito, è andato in crisi in alcune regioni perché il sistema è sotto uno stress enorme e c’è poca organizzazione, specie al Sud. Bisogna potenziare il numero dei tracciatori, che è ridicolmente basso, e dobbiamo continuare con il tracciamento, perché è un parametro molto importante; se lo perdiamo, siamo finiti.
In caso di arrivo di uno o più vaccini è possibile stimare una percentuale di somministrazione e di impatto?
È un parametro fondamentale che si può studiare, perché ci aiuterà a capire come gestire tutto il resto. Ma è un calcolo che deve essere ancora fatto.
Quali categorie sarebbe il caso di vaccinare per prime per tagliare la diffusione dei contagi?
Mentre tutti adesso dicono – e sembrerebbe logico – che bisogna vaccinare le categorie a rischio come gli anziani, paradossalmente, se è vero che il meccanismo che ha portato all’esplosione di ottobre è legato all’apertura della scuola, la fascia dei liceali potrebbe essere la prima da vaccinare, così da poter riaprire le scuole in sicurezza. Non è una provocazione, è un’ipotesi che merita un dibattito.
È molto probabile che la gran parte delle dosi del vaccino saranno disponibili non prima del prossimo ottobre. Come vede il 2021?
Se riusciamo a tornare alle condizioni di inizio settembre, con economia aperta e decine di migliaia di infetti in giro ma con Rt in discesa graduale, possiamo affrontare l’anno prossimo con una certa tranquillità. Ma se riapriamo le scuole alle condizioni attuali, soccomberemo di nuovo. La grande sfida è la scuola: non possiamo, come abbiamo fatto finora, cercare di piegare il virus alle esigenze della scuola. È esattamente il contrario, purtroppo, e non lo si può fare dall’oggi al domani: lascerei perdere chi dice che si riapre il 3 dicembre, perché a gennaio avremmo ancora 300mila infetti in giro, ad andar bene, cioè se tutto scenderà con la precisione di un orologio. Useremo la Dad ancora per qualche mese, magari utilizzando questo tempo per prepararsi meglio alla riapertura. Adesso è il momento di raffreddare per bene la situazione attuale. E quando riapriremo, non potremo commettere per la terza volta lo stesso errore.
(Marco Biscella)