SCONTRI ITALIA-SERBIA (inviato a Genova) – Follia sì, ma lucida. Non c’è stato nulla di casuale in quanto accaduto martedì a Genova dalle 19 in poi: gli incidenti in centro, l’assalto al pullman della Serbia, il lancio di fumogeni in campo, la sospensione della partita dell’Italia, gli ultimi scontri a notte fonda. Immagini che hanno compiuto il giro del mondo nel breve volgere di poche ore e che hanno fatto riemergere il clima che avvelenò la città in due occasioni che nessuno cancella dalla memoria: l’omicidio Spagnolo e il dramma del G8. I violenti che sono entrati a Marassi non erano animati da sentimenti anti-italiani, non erano sostenuti dalla rabbia per la sconfitta di venerdì contro l’Estonia, non erano sostenitori della Stella Rossa infuriati per il passaggio di Vladimir Stojkovic (il portiere aggredito) al Partizan Belgrado. Per carità, magari c’era anche una di queste come possibili giustificazioni ma non potevano essere il motivo di fondo.Il desiderio era uno solo: fare casino, impedire a Italia e Serbia di giocare, esportare la violenza per il gusto della violenza. Magari con il sottile piacere di essere ripresi in diretta televisiva, incuranti di quanto accadeva intorno e delle conseguenze dei propri atti.



Perché, a Genova, s’è rischiato di brutto: sarebbe bastato un gesto sbagliato, un ordine male interpretato e le conseguenze sarebbero state di difficile immaginazione. Soprattutto per quei bambini piccoli – e, perdonate la prima persona, viste con i miei occhi – che genitori incoscienti avevano prima condotto nello spicchio riservato ai serbi per poi restare immobili su quei gradoni nel momento in cui la polizia si stava schierando. Una carica o un movimento inconsulto della folla li avrebbero schiacciati. Il bilancio è stato comunque pesante, visto il numero di feriti. E diventa ancor più pesante, se si vanno ad analizzare le conseguenze “politiche” della vicenda. Una serata che allontana la gente dal calcio, visto lo spettacolo indegno cui hanno assistito soprattutto molti bambini. Una serata che mette nuovamente in dubbio la sicurezza di chi vuole andare a vedere una partita, perché non è possibile che sia possibile introdurre fumogeni, petardi e cesoie varie in maniera così banale.



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Una serata che offre la sensazione di impunità a chi, come i serbi di Genova insieme con il loro capo incappucciato, si permette di tenere in ostaggio uno stadio intero. Una serata che pone tutti di fronte alle proprie responsabilità: dirigenti come tifosi, tesserati come giornalisti, sempre abili nell’individuare i colpevoli e altrettanto veloci nello sfuggire a una personale presa di coscienza. Perché è vero che in Italia gli impianti non sono adeguati alle esigenze dello spettatore e della sicurezza (con una legge sugli stadi tanto invocata quanto impantanata tra le due Camere), è vero che non c’è la certezza della pena, è vero che non sono stati troncati di netto i rapporti tra società e tifoserie organizzate. Però è anche altrettanto vero che si è perso progressivamente il senso della misura, sotto ogni aspetto. E allora ha ragione chi si lamenta per primo, ha ragione chi attacca per primo, ha ragione chi sostiene le proprie posizioni con la forza della violenza: fisica, verbale o – più sottilmente – ricattatoria.



 

 

La serata di Genova indica che deve essere tirata una linea e dire: "Indietro non si torna", se si vuol salvare il calcio. Perché è giusto che le società abbiano dei ritorni economici ma è anche giusto che i tifosi siano rispettati, è giusto che i campioni guadagnino ma è anche giusto che sappiamo essere esemplari verso quei ragazzi che – piaccia o no – li hanno eletti a loro punti di riferimento. E, soprattutto, è giusto che vengano sostenuti quei dirigenti che stanno cercando di svelenire ambienti in cui, per anni, i violenti hanno fatto tutto quanto è stato loro permesso: pensiamo a Claudio Lotito, obbligato a girare con la scorta per aver tagliato i rapporti con certi personaggi della curva laziale, pensiamo ad Antonio Percassi, che sta cercando di ricostruire un tessuto sociale diverso in un’Atalanta troppo spesso associata in passato alla violenza (magari fatta passare come “scontro nobile” con altre fazioni). Condanniamo pure la teppa serba ma cominciamo un lavoro serio dalle nostre parti, prima che sia troppo tardi.