Ha tutte le ragioni del mondo Roberto Perrone quando sottolinea di non scandalizzarsi “se uno si fa il segno della croce sul campo o cose simili, bisognerebbe chiedere a se stessi e alla propria vita”. Perché, alla fine, conta sempre la libertà del singolo. Una libertà che aderisce a ciò chi si ritiene dia un senso all’esistenza, per l’istante come per l’eternità. E il segno della croce, proprio perché segno, è uno dei più semplici e più immediati riconoscimenti di quell’Altro che determina il proprio destino. Seguite una domenica di calcio e contate quante volte viene fatto: all’ingresso in campo, dopo un gol, dopo una parata, finita una partita. La discriminante di fondo è, alla fine, quella sempre indicata da Perrone: “ Se tutto si risolve nel segno della croce, mi sembra un po’ ridicolo. Se invece nasce da un’esperienza di fede, è un altro discorso”.
Dare un giudizio su un’esperienza di fede è sempre difficile e, soprattutto, inopportuno: non possiamo essere noi mortali a comprendere che cosa alberghi nel cuore di un uomo. Ma i segni possono aiutare, e tanto, come quello della croce. E allora i segni di cui è intessuta la vita sportiva e quotidiana di Nole Djokovic appaiono  indirizzati su una strada ben precisa, al di là dello scandalo spicciolo destato dal suo rendere grazie dopo la vittoria negli Open di Australia. Basta fare un viaggio fotografico e biografico in archivi disponibili a tutti per capire come il numero 1 del tennis mondiale non viva in maniera banale la propria appartenenza alla chiesa ortodossa di Serbia. Che poi questa abbia mille intrecci con l’orgoglio nazionale e con questioni geopolitiche, è discorso troppo delicato da affrontare. Ma che Djokovic ne sia intessuto, è incontrovertibile. Sul piano pubblico, basti citare il premio appena ricevuto dal patriarca di Russia, Cirillo I, per l’unità tra gli ortodossi. Djokovic è definito “un donatore generoso, che sostiene il recupero dei siti sacri in Kosovo, finanzia programmi per bambini e per gli aiuti umanitari. Un esempio di chi pone la sua speranza nella volontà di Dio”. Sul piano privato, basti invece trovare gli articoli su una notizia da noi ignorata e che raccontano di come Nole, appena arrivato a Melbourne, sia andato su Google alla ricerca di una chiesa dove festeggiare il Natale ortodosso, il 7 gennaio. Una ricerca conclusasi alla chiesa di San Sava, dove padre Sipovac ha celebrato il rito appositamente per il tennista e il suo staff.

Segni – pubblici e privati – di una fede che non si limita al segno della croce sul campo ma che cerca di essere vissuta in ogni ambito della propria esistenza. Come deve (dovrebbe) essere. E che, forse proprio per questa semplicità nel porsi, scandalizza ancor più un mondo dove perbenismo, moralismo e dita varie sono pronte a sollevarsi per ammonire chi va fuori dalle linee tracciate dal potere, non dichiarato ma sotteso alla vita di ognuno di noi. Il Djokovic che piace a tutti è quello che imita Maria Sharapova e  Rafa Nadal, che cazzeggia con Fiorello, che va a Milanello a salutare i suoi idoli rossoneri. Giusto farlo, parliamo di una ragazzo di 24 anni. Ma il Djokovic che piace ancor più è quello che, nella sua solidità di giocatore, si ricorda di come il talento possa sì essere coltivato, ma è innanzitutto il dono di qualcun Altro.
Ps Ultima considerazione. La prossima volta chi definisce “stucchevole fanatico e un po’ coatto” l’atteggiamento di Djokovic faccia attenzione non tanto al collo, dove pende la croce, quanto al polso sinistro. Lì – proprio sopra il polsino tergisudore – è presente stabilmente il chotki o komboskini. E’ il braccialetto ortodosso della preghiera, da cui Nole non si separa mai. Coatto pure questo?