E adesso, per favore, cerchiamo di evitare i soliti ragionamenti di pancia. La Spagna ci ha surclassati, è vero, per la gioia di Marco Travaglio e di chi gode nell’essere sempre contro la massa (ovviamente al di sopra). Noi, senza pretendere di insegnare alcunché, cerchiamo di analizzare la finale con criteri calcistici, senza ricercare dietrologie che solletichino i maestrini dal sopracciglio perennemente alzato e i difensori dell’etica, ora soddisfatti perché non ci sarà un colpo di spugna sugli amati procedimenti giudiziari in corso sul calcio. Allora diciamo che la Spagna ha fatto finalmente la Spagna nell’unica partita che veramente contava nel torneo. Lo ha fatto nel senso che la bellezza del gioco ha avuto finalmente un’esplicitazione nella concretezza: guardate soltanto all’essenzialità e all’efficacia dell’azione per l’1-0. Da allora è stato soltanto un giocare al gatto con il topo, con la rasoiata in contropiede del 2-0 e Torres a infierire quando ormai l’Italia era in ginocchio per fiato e uomo in meno (il ko di Thiago Motta a sostituzioni concluse), confermandosi attaccante spettacolare quando l’occasione non conta. Spagna che entra nella storia, prima Nazionale a vincere consecutivamente Europeo, Mondiale ed Europeo. Del Bosque che eguaglia il tedesco Helmut Schoen (doppietta Europeo-Mondiale) e che si appresta probabilmente a superarlo in Brasile, nel 2014. Ha dato innanzitutto lezione di gestione, smussando le tensioni accumulate nei duelli di club tra giocatori del Real Madrid e del Barcellona. Poi ha proseguito imperterrito nella scelta del 4-3-3 modello blaugrana, inventando Fabregas “falso nueve”, sullo stile di Messi in Catalogna. Una scelta criticata, ma obbligatoria per l’assenza di Villa. E soprattutto di straordinaria efficacia, come si è visto a Kiev.
Ed è questo che ha segnato la differenza rispetto all’Italia perché in un torneo mal scadenzato, che ha impedito il recupero dalle fatiche per l’intasarsi degli impegni in modo non equilibrato, soltanto un’identità di gioco avrebbe potuto salvare dal ritrovarsi in riserva. Così non è stato per la Spagna, il cui palleggio infinito ha fatto correre gli italiani, sempre a inseguire palla senza mai trovare quella superiorità che aveva creato la differenza contro Inghilterra e Germania. Il tutto per la confessione finale di De Rossi a Prandelli: “Eravamo cotti”. Una condizione che ha impedito al centrocampo di essere se stesso, proteggendo la difesa e supportando l’attacco. Tutto qui: molto duro ma molto vero. Ed è perciò necessario tornare alla considerazione iniziale, ai ragionamenti di pancia. La sconfitta è stata pesante, è vero, ma tutto ciò…
…non può cancellare quanto di buono evidenziato nel corso del torneo. La squadra ha trovato una sua identità e un atteggiamento preciso, basato sul gioco propositivo: nessuna barricata e ricerca del confronto in maniera positiva. Ha funzionato fino alla finale, quando abbiamo trovato qualcuno più bravo di noi in questo. Ma è la strada da percorrere perché la Nazionale deve avere la forza di essere la capofila di un movimento che in Italia dipende troppo dai club e dai loro progetti (vogliamo davvero chiamarli così?), che guardano unicamente all’immediato senza avere a cuore il domani, come accade in Spagna e in Germania. Prandelli ha dimostrato come sia possibile quando gli è stata data una possibilità, quando ha avuto a disposizione la squadra per un tempo ragionevole per plasmarla. I risultati si sono visti. L’Italia è piaciuta, ha ricevuto applausi dagli avversari, ha ridato orgoglio ai suoi tifosi. Nel 2006 la squadra era espressione di un gruppo di ottimi giocatori che aveva trovato la chimica giusta ma che era anche in fase declinante. Oggi un cammino è iniziato con questo secondo posto, a patto che – secondo abitudine – non riusciamo a farci male da soli. Magari cominciando nuovamente con i dispettucci a Prandelli. Sarebbe delittuoso.