Un minuto di silenzio non è mai stato negato a nessuno. L’ultimo esempio al recente Europeo di calcio, quando tutto lo stadio di Kiev si è bloccato per i canonici sessanta secondi prima di Svezia-Francia a ricordare Thierry Rolande, storico telecronista delle partite della Nazionale d’Oltralpe. A nessuno, a meno che non si tratti di uno dei morti dell’Olimpiade di Monaco durante l’attacco terroristico dei palestinesi di Settembre Nero: undici rappresentanti della delegazione israeliana e un poliziotto tedesco. Se non cambierà qualcosa da qui all’inizio della kermesse londinese, anche stavolta nessuno farà memoria della strage, avvenuta esattamente quarant’anni fa, nonostante la reiterata richiesta delle donne rese vedove da quell’atto. La motivazione? La paura di irritare i Paesi arabi, con possibile ritiro dei propri atleti. Quella d’Israele è una questione politica complessa, sarebbe presuntuoso affrontarla in queste poche righe. Ciò che conta, invece, è l’aspetto umano della vicenda, assolutamente prevalente in un appuntamento quali sono i Giochi olimpici, cassa di risonanza di imprese sportive che – quasi sempre – sono l’ultimo passo di singole vicende straordinarie. Sarebbe bello e doveroso che Londra ricordasse con un minuto di silenzio quanto avvenuto nel 1972, per risvegliare la coscienza di chi allora ha vissuto quei momenti e per destare la curiosità di chi allora non c’era ancora. Come sarebbe bello e doveroso che chi regge le fila dello sport mondiale per un attimo dettasse il tempo anche dal punto di vista educativo, senza pensare di lavarsi la coscienza una volta l’anno durante le giornate della memoria e liberandosi dal peso del calcolo politico. Se questo non avverrà, allora un aiuto utilissimo può arrivare dalla lettura di “Cinque cerchi e una stella” (add Editore), la storia del marciatore Shaul Ladany, sopravvissuto al campo di concentramento di Bergen-Belsen e alla strage di Monaco. L’ha scritto con passione Andrea Schiavon, giornalista di Tuttosport. Una segnalazione fatta non per piaggeria ma perché rimanga vivo ciò che altri vogliono seppellire un’altra volta. Di troppo.