All’interno di un’economia che cresce quest’anno più del previsto, ma che sarà in brusca frenata nel 2023, il calo del debito, dell’inflazione e soprattutto del deficit consegna un “tesoretto” prezioso di 10 miliardi di euro al nuovo governo. È l’eredità “tendenziale” che il governo Draghi svela nella NaDef (Nota di aggiornamento al Def) che l’esecutivo consegna al prossimo. Ma per Gustavo Piga, professore di economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, non si può assolutamente parlare di “tesoretto”, perché 10 miliardi sono “una polpetta avvelenata”, un cerino acceso messo in mano anche all’economia italiana.



Che cosa dunque dovrà fare il nuovo governo, il cui esordio, in campo economico e sociale, sarà in salita? Servono due prioità: da un lato, spiega Piga, “il minimo che si possa fare è riportare il deficit/Pil perlomeno ai livelli programmati per quest’anno, cioè il 5,6%. Si libererebbero così una quarantina di miliardi netti espansivi: metà destinati agli investimenti pubblici e metà al sostegno dell’economia”; dall’alto, va messo in campo un progetto serio e credibile di riforma delle stazioni appaltanti” per realizzare una “spending review di qualità”.



Il governo Draghi, a sorpresa, lascia in eredità al nuovo esecutivo anche un “tesoretto” di 10 miliardi per il 2022 e di altri 10 per il 2023. È una buona notizia?

No, è uno scarico di responsabilità, una polpetta avvelenata servita sul tavolo del prossimo governo.

Perché parla di “polpetta avvelenata”?

È ovvio che di questi soldi l’economia italiana ha un bisogno immenso. Ma non lo chiamerei un “tesoretto”, semplicemente una manovra, dovuta, data al nostro deficit programmatico.

Ci spieghi meglio.

Il governo Draghi aveva previsto un deficit/Pil al 5,6% e questo obiettivo doveva essere raggiunto, soprattutto da questo governo dotato di grande reputazione internazionale. E poteva farlo tranquillamente, perché così avrebbe aiutato il Paese.



Invece?

Il governo che viene non ha acquisito la stessa reputazione e lasciargli in eredità questo obiettivo mette ancor più in grave difficoltà il Paese. Il paradosso è che dovremmo usare queste risorse per investimenti pubblici, i soli che fanno da volàno della crescita anche se possono essere usati solo gradualmente, ma è evidente che, alla luce dell’attuale situazione, andranno spesi immediatamente e c’è urgente bisogno che questo 0,5% di deficit, appunto i 10 miliardi di cui parliamo, vadano subito in misure di sollievo e ristoro per aziende e famiglie.

Non sono dunque un buon viatico per il nuovo governo?

Che senso ha? Sono soldi del 2022, anno che sta per scadere: poteva tranquillamente spenderli già Draghi, non il prossimo governo.

Il nuovo governo, quindi, partirà in salita e avrà pure il compito di fissare le linee programmatiche che la NaDef di Draghi e Franco ha volutamente e giustamente lasciato al prossimo esecutivo. Che cosa dovrebbe fare per rilanciare una crescita che torna a essere anemica?

Premesso che tutti i risultati del 2022 sono a carico di Draghi e Franco e che il nuovo governo sarà responsabile solo per il 2023, il nuovo esecutivo deve attuare quello che purtroppo Draghi non ha mai fatto. In un contesto così drammatico come sarà il 2023, la politica fiscale deve fare una sola cosa: quando il Pil va giù, deve entrare in campo per sostenere l’economia.

In concreto?

Se Draghi, con un’austerità comunque folle per il 2023, aveva previsto il disavanzo al 3,4%, il minimo che si possa fare è riportare il deficit/Pil perlomeno ai livelli programmati per quest’anno, cioè il 5,6%. Si libererebbero così una quarantina di miliardi netti espansivi: metà destinati agli investimenti pubblici e metà ali sostegno dell’economia.

Ci riuscirà un assai probabile governo Meloni?

Siccome non l’hanno colpevolmente fatto né Draghi, né Conte, tutto questo non si può realizzare senza un’immensa spending review delle stazioni appaltanti. I fallimenti del Pnrr ci dicono che questa è la madre di tutte le riforme, una riforma che tra l’altro ci chiede anche la Ue.

Che tipo di riforma?

Abbiamo bisogno di una riforma radicale, non per centralizzare la spesa, bensì istituendo una stazione appaltante per ogni provincia, formata da personale estremamente qualificato e ben remunerato. Congegnate in tal modo, queste strutture restituirebbero al Paese un enorme risparmio in fatto di sprechi e renderebbero disponibili ulteriori risorse, in grado di poter rassicurare l’Europa e i mercati.

Altrimenti?

Se non farà questo, non vedo come la Meloni, avendo sul piatto quella polpetta avvelenata, possa andare a Bruxelles a dire che vuole interrompere questo ciclo micidiale di austerity. Ha bisogno di uno scudo e questo scudo può essere solo una buona spending review, intesa come qualità della spesa. Serve un progetto serio e credibile di riforma delle stazioni appaltanti.

In effetti la NaDef consegna una fotografia “tendenziale” poco rassicurante. È così?

È una NaDef che certifica il nostro – e per nostro, intendo europeo – grado di follia, perché non ci rendiamo più conto di quanto stiamo mettendo a rischio il progetto europeo, avendo completamente rovesciato le carte in tavola per quel che riguarda non solo la politica monetaria, ma soprattutto la politica fiscale.

Un giudizio molto duro. Dettato da cosa, in particolare?

In un momento di così grande difficoltà economica e in un quadro che rapidamente ha ridimensionato tutte le nostre prospettive di crescita rispetto solo a sei mesi fa – vorrei ricordare che ad aprile 2022 dicevamo a tutti che il nostro tasso di crescita nel 2023 sarebbe stato del 2,4% –, mi ha preso un colpo quando ho visto che oggi andiamo a dire tranquillamente, come se nulla fosse, che la crescita attesa del Pil 2023 si è ridotta al +0,6%. Misura, oltre tutto, che considero ottimistica, visto che già l’Ocse parla di un +0,4% di crescita per l’Italia e molti istituti stimano che il 2023 andrà in zona rossa di recessione. Uno scenario terrificante.

Anche il deficit diminuisce meno del previsto. Dobbiamo preoccuparci?

La politica fiscale del governo Draghi era già entrata in territorio austero con la testarda convinzione nel dover tenere fermo il deficit/Pil 2022 al 5,6% di fronte a uno scenario economico completamente mutato rispetto all’anno precedente. Adesso addirittura scopriamo che siamo stati ancora più austeri, portando il deficit al 5,1%. Il che significa che, mentre abbiamo passato tutto il tempo a discutere di scostamento di bilancio sì/scostamento di bilancio no, il governo si è preso il diritto di fare uno scostamento alla rovescia, al ribasso, e senza alcun accordo con il Parlamento.

Il rapporto debito/Pil è previsto in netto calo quest’anno, al 145,4% dal 150,3% del 2021, con un ulteriore sentiero di discesa negli anni a seguire fino ad arrivare al 139,3% nel 2025. Concorda sul fatto che le tendenze di finanza pubblica presentate nella Nadef  – come scrive il ministro dell’Economia, Daniele Franco, nella bozza approvata dal Consiglio dei ministri – “sono complessivamente rassicuranti, sebbene il servizio del debito si faccia più pesante”?

Il debito scende, ma non perché questo governo abbia fatto qualcosa, ma perché con questa inflazione enorme di fatto si sta riducendo il valore reale delle obbligazioni di coloro che detengono i titoli di Stato. Questa riduzione del debito/Pil grazie all’inflazione avrebbe però dovuto portare il governo a fare quei deficit di cui il Paese ha bisogno. Non è stato fatto ed è una gravissima responsabilità, che passa il cerino acceso al nuovo governo e ai successivi.

Sul fronte del Pnrr, invece, restano da spendere circa 170 miliardi, risorse “imponenti” che, stando a quanto si legge nella NaDef, se pienamente “utilizzate daranno un contributo significativo alla crescita a partire dal 2023”. Entro fine anno saranno spesi circa 21 miliardi rispetto a un Piano complessivo di 191 miliardi. Stiamo procedendo troppo a rilento?

Nella NaDef – e questo è un altro punto dolente – si ammette che, dopo il fallimento del 2021, in cui siamo riusciti a spendere solo 5 dei 15 miliardi previsti, anche nel 2022 le somme spese non saranno all’altezza del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Attenzione però: questo avviene non tanto per le difficoltà legate al contesto internazionale, quanto in realtà al fatto che questo governo si è rifiutato di riconoscere che per governare questa gigantesca macchina del Pnrr sarebbe stato necessario ben altro investimento nella Pubblica amministrazione, incapace appunto di spendere le risorse dovute. Un fallimento completo.

(Marco Biscella)

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