In questi giorni si sono tenuti i test di accesso alla facoltà di medicina, che prevede il numero chiuso. Il termine “numero chiuso” è già di per sé impreciso in quanto si deve parlare di “numero programmato”: tale numero infatti, che non a caso risulta diverso ogni anno, viene definito di volta in volta con decreto ministeriale, sulla base del potenziale formativo dichiarato dagli atenei e delle esigenze dei diversi profili professionali, calcolato in base alle norme, anche europee, e procedure attualmente in vigore. Il decreto è emanato a seguito di vari incontri del relativo tavolo tecnico di cui fanno parte tutti gli attori del sistema formativo di Area sanitaria, inclusi gli Ordini professionali.
Il numero che emerge, e che di necessità non può essere slegato dalle capacità formative delle università, è costantemente molto lontano dal numero degli studenti che legittimamente aspirerebbero ad iscriversi al corso di medicina e chirurgia. Ciò rende indispensabile una selezione all’ingresso, ma l’attuale procedura presenta eccessivi elementi di aleatorietà, che hanno dato luogo ad un progressivo aumento del contenzioso amministrativo. Negli ultimi anni quindi la questione ha assunto un impatto sociale non trascurabile sostenuto da un lato dal senso di frustrazione degli esclusi e delle loro famiglie e dall’altro dal ricorso a corsi di medicina allocati all’estero, ancora più onerosi per le famiglie. Non stupisce pertanto che anche nella presente campagna elettorale il problema venga agitato dalla politica, che da tempo si è resa conto della inadeguatezza del sistema: inadeguatezza che però mai in precedenza era emersa drammaticamente come a seguito della pandemia.
La apparentemente semplice equazione “maggior bisogno di medici = abolizione del numero programmato” è però sbagliata. Intanto non abbiamo affatto bisogno di un maggior numero generico di medici di qualsiasi tipologia, ma piuttosto abbiamo bisogno di più medici in alcuni settori chiave che sono effettivamente carenti, come anestesia e terapia intensiva, medicina e chirurgia di urgenza, medicina territoriale e domiciliare ed altro ancora. Questo fa già capire che se non si calibrano gli accessi alla facoltà di medicina rispetto agli accessi alle scuole di specializzazione di area sanitaria non si risolve affatto la criticità, ma anzi si crea un imbuto formativo ancor più frustrante, dato che sarà sempre impossibile soddisfare tutte le aspirazioni, e potenzialmente pericoloso per la qualità della preparazione. Ma poi è davvero pensabile che un sistema universitario come quello attuale, con una capacità formativa plasmata sull’ingresso di circa 16mila studenti ogni anno, possa da un momento all’altro, per decreto, passare a formare oltre 60mila medici? Non parliamo solo di aule, laboratori e strutture ospedaliere ma anche degli stessi docenti, il cui numero, alla luce del recente Dm 1154/22 sull’accreditamento, andrebbe adeguato con costi significativi ed esiti incerti sulla qualità del reclutamento.
Basti pensare che il Dm, a fronte di 60mila studenti, imporrebbe 10mila professori e 4mila ricercatori con un incremento di spesa per le università di almeno 900 milioni l’anno di soli stipendi, senza contare altri importanti costi. La rettrice dell’Università di Padova ha dichiarato al Gazzettino:…“con numeri del genere non saremmo in grado di dare una didattica di qualità”….. (7 settembre 2022), e la ministra dell’Università Cristina Messa, medico, ha dichiarato in un’intervista a Skuola.net: “Non abbiamo le forze per riuscire a formare tutti questi medici. Allora o li fermi al primo anno oppure li fermi ancora prima che comincino”.
Siamo sicuri, dunque, che fermare gli accessi già prima dell’inizio sia la scelta giusta? Non sarebbe preferibile lasciare a tanti giovani, motivati e molto convinti della loro scelta, la possibilità di dimostrare, a fronte di una bocciatura su test che ogni anno vengono fortemente criticati per la loro inadeguatezza, se sono davvero incapaci e inadatti ad affrontare il corso di medicina? Spostare la selezione un po’ più avanti nel tempo ma soprattutto effettuarla sulla base non di astrusi test ma sull’effettiva preparazione conseguita sulle materie di insegnamento potrebbe essere un’alternativa ragionevole.
Per evitare la perdita però di un intero anno, come nel cosiddetto sistema alla francese, si potrebbe pensare all’istituzione di un “semestre di formazione in scienze della vita” (Sfsv), di tipo abbreviato (settembre-novembre), articolato su pochi corsi fondamentali (biologia, fisica, biochimica) cui si possa accedere liberamente.
Sembrerebbe poi opportuno diversificare l’ultimo anno della scuola superiore per gli studenti che intendono iscriversi a medicina, con insegnamenti modulati sull’iter universitario successivo, mantenendo le materie liceali fondamentali ma rafforzate da un significativo incremento di materie scientifiche attinenti, come chimica, fisica, biologia, matematica, informatica di base. Questo però richiederebbe un ripensamento dell’offerta formativa dei licei, e non pare attuabile in tempi brevi.
Certo si porrebbe poi il problema di come operare la selezione dopo questo semestre accorciato, dato che le valutazioni degli esami sono troppo disomogenee fra i vari atenei. Un’ipotesi realistica è quella di effettuare un esame disciplinare, ampio ed articolato, su base nazionale, effettuato in forma telematica nei tre corsi del Sfsv, tenuto contemporaneamente in tutte le università italiane a fine novembre, data questa che permetterebbe agli esclusi di non perdere un intero anno e di utilizzare i crediti ottenuti in tutti i numerosi corsi del settore in cui gli insegnamenti ricevuti sono presenti: la procedura non sembra più macchinosa degli attuali test. Naturalmente l’introduzione di tale semestre richiederebbe la modifica degli ordinamenti didattici dei corsi di studio interessati, ma potrebbe anche bastare una revisione dei regolamenti.
Sostenere che un numero programmato per l’accesso al corso di medicina è ineludibile allo stato e nella forma attuali, in conclusione, non dovrebbe essere piuttosto un comodo rifugio per lasciare tutto com’è. Non vi è dubbio che sarà inevitabile un massiccio intervento finanziario sulle università per aumentare le loro capacità formative nei settori critici appena ricordati, come sostiene anche la rettrice dell’Ateneo padovano; per far fronte alle carenze, dovrà essere affiancato da incentivi per i medici che sostengono un peso assistenziale ai limiti dell’intollerabile come nei reparti di Pronto soccorso.
Modificare però le modalità di accesso al corso è anche eticamente giusto e, come nell’esempio sopra citato, comporterebbe costi limitati per lo Stato e per le famiglie. Escludere dai criteri di selezione la spinta emozionale e la vocazione alla medicina da parte di tanti giovani, negando di fatto il diritto a provarci, sembra una soluzione tutt’altro che soddisfacente e che continuerà a sollevare forti proteste da parte degli studenti, proteste che puntualmente si ripetono ogni anno al momento dell’effettuazione dei test di accesso, come è accaduto nei giorni scorsi un po’ in tutta Italia e in particolare alla Sapienza.
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