È cambiato in Emilia-Romagna il modulo “eugenetico” per spiegare alle donne incinte l’utilità di un test prenatale per ridurre le nascite di bambini con sindrome di Down, eppure negli ospedali viene prospettato ancora solo l’aborto alle gestanti. Il caso è scoppiato quando una futura mamma aveva segnalato ad Avvenire una frase choc del modulo in vigore fino ad aprile. Si leggeva, infatti, «[…] al fine di ridurre il numero di falsi positivi (e di conseguenza i test prenatali invasivi) e di ridurre il numero di falsi negativi (e di conseguenza il numero di gravidanze portate a termine con la nascita di bambini con sindrome di Down, trisomia 13 e trisomia 18)».



L’assessore alla Sanità dell’Emilia-Romagna, Raffaele Donini, assicurò l’impegno a cancellare quella frase, ed effettivamente è stato di parola, anche se la sensazione è che alla fine sia cambiato poco. Infatti, ora la frase nel modulo informativo sul test prenatale non invasivo per la ricerca del Dna fetale nel sangue materno (Nipt) recita: «La Regione Emilia-Romagna ha quindi deciso di offrire alle gestanti residenti sul proprio territorio l’esecuzione del Nipt per la valutazione del rischio della trisomia dei cromosomi 21, 13 e 18, al fine di ridurre il numero di falsi positivi (e di conseguenza i test prenatali invasivi) e di ridurre il numero di falsi negativi (e di conseguenza le mancate diagnosi di trisomia 21, trisomia 13 o trisomia 18)».



“ABORTO CONSIDERATO ANCORA UNICA SOLUZIONE”

Resta, però, aperto il tema della promozione dell’accoglienza alla vita, come aiutare concretamente a sostenere una gravidanza chi è in difficoltà e ha bisogno di aiuto, senza però che questa disponibilità ad aiutare, sottolinea il consigliere regionale del Pd Giuseppe Paruolo, «possa essere percepita come una intromissione indebita». In questi mesi, diverse associazioni locali di genitori di bambini con disabilità hanno provato a comprendere quanto un avvertimento simile possa influenzare le scelte dei futuri genitori in termini di accoglienza alla vita di bambini con diagnosi infauste. Ma è un dato irrintracciabile. «Difficile dire quanti siano coloro che, effettivamente, decidono di interrompere la gravidanza per questo: la Regione e l’Asl non forniscono numeri», affermano.



Ma ci sono testimonianze dirette. Come quella di una donna, in attesa del primo figlio nel 2013, che all’Avvenire spiega che all’epoca si sottopose al Bi-test, antenato del Nipt, che però era un esame probabilistico. «Riscontrarono una probabilità ritenuta molto alta che nostro figlio avesse una trisomia», la sindrome di Down. Il genetista dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna che li convocò, propose loro esami diagnostici più invasivi e prospettarono loro «i passaggi necessari per un’eventuale interruzione di gravidanza: nessuna menzione delle alternative o di cosa avrebbe implicato concretamente crescere un bambino disabile». Alla fine, il bambino è nato in perfetta salute, ma questo caso conferma la mancanza di un percorso di sostegno alle famiglie.

SINDROME DI DOWN, “DONNE SOLE DI FRONTE ALLA SCELTA”

C’è anche la testimonianza di Andrea Mazzi, animatore generale del servizio “Famiglia e vita” della Comunità Papa Giovanni XXIII, il quale racconta all’Avvenire la nascita di una bambina affetta da beta-talassemia, una malattia diagnosticata in gravidanza. «I bimbi con questa diagnosi venivano tutti abortiti. Parliamo di una malattia per cui oggi esistono farmaci estremamente efficaci» . Mazzi riferisce di diverse storie di genitori che «hanno superato le insistenze degli operatori che propendevano decisamente per l’aborto cosiddetto terapeutico e ora che fanno ricorso alle cure e agli aiuti di cui hanno diritto, si ritrovano ancora medici che negli ospedali di Bologna non si fanno scrupolo di dir loro: “Era meglio che non nascesse!”».

Questo vuol dire mettere i genitori nella condizione di sentirsi in colpa per essersi avvalsi del loro diritto di scelta. Quando un feto ha problemi di salute, «troppo spesso si invita la mamma/coppia a fissare la data per l’Ivg mentre ancora riflette su cosa fare, quando non viene fatto un preciso invito ad abortire». La disabilità, dunque, viene identificata come una condanna senza appello, da risolvere con l’aborto. Donne e famiglie si ritrovano, pertanto, sole di fronte ad una scelta su cui sanno davvero poco.